Anna Karenina di De Fusco: il rumore assordante del nero

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ph Antonio Parrinello

L’incipit è universalmente riconosciuto: Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo. L’estrema difficoltà era ridurre, senza snaturare, le oltre mille pagine del tomo di Tolstoj nelle due ore e mezzo della premiata ditta Luca De Fusco (dopo VenetoNapoli e Catania, ci sarà Roma per il Direttore?) regia ispirata, e adattamento con il drammaturgo Gianni Garrera. Arduo il tagliare, l’assemblare, l’adattare senza perdere il senso della misura ottocentesca e gli slanci romantici, quella quiete prima della tempesta in cangianti scale di grigi e quelle burrasche dell’anima, quelle tormente agitate e riuscire nel complicato tentativo di tenere la barra dritta dentro i marosi dell’amore straziato di questa favola noir che è Anna Karenina (visto al Teatro Quirino di Roma). Il velatino cinematografico ci porta fin dalla prima scena-immagine dentro un mondo rarefatto, forse nebbioso, di sogno, di ricordo postdatato, di calugine persa nella memoria, di neve che tutto ammanta e sbiadisce, che copre e nasconde. Ecco questa versione teatrale di Anna Karenina è un nascondimento e un disvelamento, un aprirsi e un ritrarsi, un mostrarsi e un incedere per poi rabbuiarsi come una bella giornata che volge rapidamente al cupo. Per raggiungere questo stato emotivo, che sottende e corrode e traspare e corre lungo tutto l’arco narrativo, fondamentale è stato l’apporto della luci in levare e in togliere (di Gigi Saccomandi), a cercare le ombre, senza sottolineature, a evidenziare i chiaroscuri senza sforare nella sovrabbondanza e nel ridondante. E, in questo gioco e parallelismo, le musiche (dell’israeliano Ran Bagno) mai di contorno o di accompagnamento, ma di sostanza, di quella pasta che resta incollata ai costumi di chi è in scena, nei timpani di chi ascolta, a creare un amalgama, soffice e ruvida, carezzevole e crudele.

 

ph Antonio Parrinello

 

In questo impianto, pulito, semplice e al tempo stesso potente, si è incastonata la fermezza feconda, la presenza altissima, l’impatto intenso, carnale e sublimato, di Galatea Ranzi, fulcro e perno, perfetta nell’introiettarsi nell’eroina dark, nella postura elegante, con tutti i suoi cambi d’umore, le sue incertezze, dubbi e debacle, cadute e speranze, in un’altalena di sensazioni, nelle montagne russe dei suoi sentimenti battuti dal vento ora della passione, adesso della razionalità. De Fusco inserisce due elementi, scenici e vocali, al plot: dei lettori che cesellano, ritagliano e ricuciono, senza essere invadenti, le varie scene (quasi come se leggessero le note registiche o autoriali), e i personaggi che alternano il dialogo in prima persona con una punteggiatura grammaticale in terza persona raccontandoci non solo il presente vissuto in presa diretta ma anche i pensieri personali, il magma che si cela sotto la cenere, i sommovimenti delle azioni, le strategie dietro le quinte. Anna Karenina è una grande storia d’amore, inquieta e frastagliata, fatta di impennate e di cadute agli Inferi sempre più rocambolesche dalle quali rialzarsi e trovare riparo diventa sempre più complicato fino al traumatico epilogo finale. Ma mette sotto l’occhio di ingrandimento anche la condizione femminile divisa tra cercare di accasarsi, e quindi salvarsi socialmente trovando il proprio posto nel mondo, e quella ricerca della felicità che è chimera, sogno, miraggio più poetico che realmente concreto, che dilania angoscioso e fa contorcere, stimolo che fa resistere alle intemperie ma anche possibile finestra aperta su un mondo nuovo da immaginare e fantasticare, quindi ricchezza e limite, trampolino e galera. Certo qui si parla della dicotomia tra matrimonio e fedeltà da una parte e tradimento e inseguimento delle passioni dall’altra, ma se ampliamo il campo la scelta esistenziale si può spostare tra le convenzioni e il controllo sociale (famiglia, benpensantismo, religione) e quello che realmente ci spinge e ci muove, quello che ci scombussola e ci sposta, quello che ci fa alzare la mattina contro quello che sarebbe giusto fare, la rivoluzione versus la posatezza, la riflessione.

 

ph Antonio Parrinello

 

In questa elettricità sta, vive e convive, lo spirito della Karenina (la storia che Tolstoj ha reso immortale arriva dalla cronaca dell’epoca di una sua lontana parente suicidatasi per amore; il romanzo uscì a puntate e aspramente criticato) schiacciata e sottomessa, subalterna che però sente di avere due ali pronte a spiccare il volo che sono relegate solo a pura estetica. La temperatura di tutta la piece è feroce, puntellata, non cala mai la tensione emotiva, senza affaticare, pungola, sprona, senza aggredire, non lascia tranquilla la platea sulle poltrone. Le immagini (veri e propri film) che si succedono sul velo del passato sul boccascena, si innestano con il palcoscenico creando un doppio filone narrativo e drammaturgico che si sovrappone, che esalta entrambi, quasi come fosse una fotografia e il suo negativo messi a confronto, uno sopra l’altro per smorzare o mettere in luce particolari (gli occhi, gli sguardi, i corpi, gli zoccoli dei cavalli), dettagli, per arricchire il ventaglio di argomentazioni, di libertà, per rinverdire un pathos che non ci abbandona mai, quel lirismo commosso che scivola in ogni scena e non cala mai d’intensità in questo corpo a corpo che tiene in tensione la platea e la coinvolge e la fa partecipare direttamente non solo alle vicende ma quanto a quel brulicare di fuoco, delirio, gelosie, prese di posizione scartavetrate, nuovi inizi e vecchi limiti. La scena (di Marta Crisolini Malatesta) è una grande stazione (i treni portano via lontano) in stile liberty, di ferro perenne e acciaio imperituro e metallo indurito e inscalfibile, pesante monolite come i sentimenti che sembra non debbano, per contratto, cambiare mai, ma potrebbe essere anche la Porta della Città Imperiale, il trapasso tra la Vita e l’Aldilà, la divisione tra il Bene e il Male. Questa cupezza come una cappa ci avvolge e abbraccia, ci stringe e ci appassiona questo dolore diffuso, mentale e fisico, queste piccole speranze di luce subito redarguite e fustigate. Il quadro più suggestivo è quello con il marito di Anna (Paolo Serra passivo-aggressivo) su una scala, immerso in un nero caravaggesco, o anche con rimandi alla tradizione fiamminga seicentesca dei vari RembrandtRubens o Vermeer, con una luce divina, accecante, abbagliante, travolgente, che gli taglia la vista. I costumi, così come la scena, sono un pantone di variazioni delle tonalità del grigio e del nero luttuoso.

 

ph Antonio Parrinello

 

Anna Karenina è una miscela di momenti trascurabili di (in)felicità corrotti, bipolari, stupiti, dipinti in un’emorragia intellettuale di voglia di futuro, di desiderio di cambiamento, uno spaesamento tra ciò che si è e quello che saremmo voluti diventare. La Ranzi è una Venere di Milo oscura, annerita, eclissata, soffocata, delusa ma anche spregiudicata, pentita, obbligata, compressa tra l’incudine del marito e il martello dell’amante (Vronskij – Giacinto Palmarini) comunque infelice, comunque soggiogata in un thriller psicologico tra umiliazioni e bluff pokeristici, tra vorrei ma non posso, tra attrazioni maniacali e altrettante repulsioni, un dramma di perdoni lancinanti e di fughe rimanendo bloccata, ferma, immobile, paralizzata nel fango dell’impossibilità, nell’illusione di un amore totalizzante che risolva i mostri, volubili e mai arrendevoli, dell’esistenza. Veniamo fagocitati in questo abisso di pece depressa, risucchiati nelle epifanie vorticose, coliamo a picco con i protagonisti (tutti pericolosamente sull’orlo di una crisi di nervi, perdenti colmi di odio e sconfitti dalle loro dinamiche perché hanno paura di vivere, vulcani pronti ad eruttare ed esplodere) in questa insoddisfazione solida, nell’autodistruzione, nell’autosabotaggio, nelle sofferenze torve annaspiamo impotenti senza possibilità di salvezza. Inghiottiti dal buio. Dove finisce l’amore inizia l’odio è la grande lezione senza tempo di Anna Karenina. Il dubbio biblico: A chi ha molto amato sarà molto perdonato?

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.