Il Capitale: Marx, il lavoro perduto e il tempo che ci comprano

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Il recente Premio Ubu ha solamente certificato l’assoluto valore di due intellettuali e artisti come Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, che sanno ben calibrare e dosare l’alchimia teatrale innestando sulla scena fatti di cronaca e quella giusta dose di emozione e un’affabulazione alta ma che al contempo va dritta alla pancia. È per questo che i loro spettacoli sono per tutti e riescono a colpire indistintamente più fasce di pubblico. È per questo che i Kepler 452 sono così amati. È per questo che, nelle loro drammaturgie, il reale non fa solamente capolino ma è uno spiraglio fondamentale, un pilastro al quale agganciare la maestria del palcoscenico, attaccarci e abbinarci i ferri del mestiere per romanzare (come direbbe uno degli attori-non attori di quest’ultima nostra loro visione) vicende più o meno note. Come fu per Il Giardino dei Ciliegi con la storia della famiglia bolognese sfrattata e dei loro mille animali incollata a Cechov, come è stato per Album abbinando Alzheimer e l’alluvione recente in Romagna (con la caduta di stile, secondo chi scrive, soltanto de Gli Altri dove ci si concentrava sul mettere alla berlina uno di quelli che offese la rasta tedesca Rackete e il suo carico di migranti irregolari in un porto siciliano dopo che aveva speronato la Guardia Costiera). Il loro è un teatro verità? Sì. Il loro è un teatro civile? Anche. Il loro è un teatro sociale. Certamente.

 

 

Come stavolta con questo Il Capitale (prod. Emilia Romagna Teatro Nazionale) che parte da Marx ma poi affonda le radici e si sporca le mani non tanto nella teoria ma proprio nella fabbrica, dentro un’azienda, la GKN di Campi Bisenzio, che da ex Fiat passata in mano inglese e finita ad un fondo americano che a luglio ’21 ha licenziato tutti gli operai in tronco con l’invio di una mail. Tre anni di lotte e il loro studio sul campo, l’esserci stati, l’essere andati, aver portato lì la loro esperienza e i loro occhi critici, il loro ascolto e la loro intelligenza, aver frullato i discorsi e le chiacchiere, i progetti e i sogni andati e aver restituito un’umanità dolorosa ma viva e, come nel Giardino, aver portato in scena quattro lavoratori che hanno raccontato, recitando se stessi, la loro vita collegata a quel luogo, il tempo lì dentro, l’essere cresciuti come uomini e donne, l’essere invecchiati, cambiati, modificati, grazie e purtroppo a quello stabilimento che tanto loro ha dato e che tanto ha preteso, chiesto, preso. Il Capitale dei Kepler è una grande lezione di vita. Perché non parla soltanto di lavoro e del nostro mondo contemporaneo ormai imploso e fallito, non parla soltanto del capitalismo collassato e boccheggiante ma parla di vita occidentale, dei nostri valori che ognuno di noi vorrebbe cambiare ma che nessuno riesce a frenare nella sua deriva perché ci sentiamo minuscoli ingranaggi schiacciati dal Sistema che tutto trangugia e mastica e digerisce. Ma soprattutto parla del tempo, del tempo che crediamo illimitato e che invece ad un certo punto finisce, di quel tempo che ci è stato concesso e che noi vendiamo a peso, ad ore per avere indietro in contraccambio della valuta per poter comprare delle cose che spesso non ci servono e che ancora più frequentemente non avremo tempo per poter usare.

 

 

Il Capitale ci parla di vita e solidarietà e di come quando tutto sembrava finito, ovvero con il licenziamento di massa, è rinato un sentimento attorno alla fabbrica, con la fabbrica, dentro la fabbrica, perché ci si è resi conto che la fabbrica stessa, una volta fermati i macchinari, erano gli uomini e le donne che la abitavano, che gli davano forza-lavoro e respiro e tutte le loro storie che in decenni si erano incastrate e confuse e mischiate come un gomitolo di lana ormai inestricabile. Il Capitale è una riflessione sul lavoro, sul lavoro che non c’è o su quello mal pagato, sulle vessazioni, sul mobbing, sulla ricerca disperata di un padrone che ci sfrutti per poi essere delusi e insoddisfatti della nostra condizione di stanchezza e frustrazione. I problemi sono sempre due: il tempo e i soldi. Se non vendi il tuo tempo non hai i soldi, anche se poi alla fine sono pochi e maledetti. E senza soldi non puoi andare da nessuna parte. Sulla scena, insieme a Borghesi, ci sono quattro ex lavoratori della ditta fiorentina, TizianaIorioDarioLupetto (davvero tutti in palla, veri e convincenti) che raccontano da più punti di vista la loro esperienza, partendo dalla fine e, a ritroso, fin dal momento quando sono entrati per la prima volta dentro i cancelli di questo grande mostro produttivo. Vengono in mente le pellicole Madonna che silenzio c’è stasera di Francesco Nuti alle prese con i telai pratesi e Berlinguer ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci, sempre di Toscana si tratta.

 

 

E ci si sente sconfortati e sconfitti e perdenti davanti alle multinazionali, ai profitti miliardari, all’impersonalità della Borsa, alle oscillazioni dei mercati che polverizzano vite e famiglie. Ma sono queste facce da operaio ed è il puzzo di fabbrica che ci restituiscono e ci donano una verità che fotografie e libri e saggi e giornalisti non riescono a far passare. La fabbrica a riposo con il suo ronzio definita la bimba che dorme e quell’immobilità che si mangia la polvere, il tempo e le cose, tutto questo lavoro che non sta accadendo. È un racconto di resistenza, di persone che non si sono né piegate, né spezzate, come l’acciaio, ma temprate. Il licenziamento è stato uno spartiacque che ha fatto chiedere a loro stessi Io nella vita che cosa ho fatto? Rispondendosi Pezzi di semiasse. La chiusura della ditta è stata una rivoluzione, anche interiore, una presa di coscienza, uno schiaffo, una scossa. La consapevolezza di lottare per tornare a quelle macchine che gli hanno rubato il tempo con un lavoro fatto di gesti meccanici e sempre uguali giorno dopo giorno, anno dopo anno. Infine c’è la grande riflessione, dopo quella degli operai, di Borghesi che in quel momento incarna gli intellettuali, i teatranti, gli amanti dell’arte, i lavoratori del terziario, i professionisti, tutti quelli che trovano le merci nei negozi e magazzini senza chiedersi chi le fa, chi le costruisce, chi le fabbrica, cose che diamo per scontato senza la voglia reale di prestarci attenzione. E poi questo mondo che va alla deriva ma che nessuno ha la volontà di fermare e scendere da questo treno in corsa che andrà a schiantarsi contro altre guerre, altre pandemie, il riscaldamento climatico, altre tragedie evitabili che arriveranno per poi sorprenderci, drammatizzare, bestemmiare il cielo. La nebbia ci sta avvolgendo ma tutti noi speriamo, pensiamo, preghiamo, ci illudiamo vanamente che sia passeggera.

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.