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Forse non sono stati proprio 90 minuti questo bignami shakespeariano, forse ci sono anche i supplementari e pure il recupero ma il divertimento, della platea, e la voglia di non lasciare il palco, da parte dei tre direttori artistici del Teatro Manzoni di Calenzano, hanno creato un amalgama straordinaria, un sentimento integrato e partecipato che ha bucato la quarta parete del piccolo e delizioso teatrino. Testo inglese celebre e scoppiettante, portato in Italia da Zuzzurro e Gaspare insieme ad Alessandro Benvenuti, da cinque anni la ditta Degl’Innocenti-Andrioli-Checcacci hanno comprato i diritti e lo stanno portando in giro, con furore e nuovo fulgore: sono appena reduci da una decina di giorni milanesi scoppiettanti sotto le feste di Natale al Teatro Menotti e sono ancora vive nei loro ricordi le tre stagioni estive a Roma al Globe di Proietti. Ci vuole ritmo, velocità, grande alchimia e chimica e anche un fisico bestiale per reggere oltre due ore di salti, corse a perdifiato, cadute e risalite sudatissime, affiatamento, energia e quella follia che non deve mai abbandonare un attore. I tre, nel mezzo del cammin di nostra vita e capelli bianchi, hanno ancora fuoco e incoscienza, quel luccichio negli occhi, quella sfrontatezza e ancora tanta voglia di giocare (non a caso play nella lingua del Bardo), improvvisare, sentire il pubblico, riuscire a creare un’unica sostanza di divertimento e condivisione, di sana soddisfazione. Dopo mille corse alla fine hanno ancora fiato per fare l’ultima sgambata all’uscita per salutare uno ad uno, tra sorrisi e strette di mano, tutti gli ospiti tra grazie e senso di appartenenza e di comunità.
Condensare tutte le commedie e le tragedie di Shakespeare in un’ora e mezza, il tempo di una partita di calcio. Mission Impossible, si potrebbe dire. E invece a teatro tutto è possibile. Il tutto è un pretesto che denota il grande slancio e sentimento per il palcoscenico e per le parole del drammaturgo e regista e attore di Stratford-upon-Avon, per le sue parole centenarie ma sempre attuali e contemporanee, universali, che ancora toccano tutti. Ai testi del poeta seicentesco i tre sulla scena, con la loro recitazione volutamente amatoriale forzando i ritmi e parodiandone i versi, con i costumi espressamente caricaturali da saggio di provincia, ci portano dentro prima Romeo e Giulietta e alla fine Amleto, i due tomi più conosciuti, due testi che occupano svariati minuti di gag e lotte sulle tavole del palcoscenico e tra le poltrone. Nel mezzo scorrono tutte le altre opere condensate, liofilizzate, riassunte, accartocciate, sintetizzate. Mettete da parte la filologia e respirate questo caos controllato, questa tempesta senza quiete, questa follia che sprizza e spara e sputa e schiamazza, questa lava che ci travolge, questa frizzantezza briosa impetuosa e trascinante e virale e contagiosa. Tutto è svelato, tutto è mimato, tutto è esposto, tutto è posticcio: esilarante la scena del balcone con Giulietta sulla sedia e la gonna a coprire la testa del narratore.
Poi arriva il Tito Andronico come fossimo a Masterchef tra coltelli e sangue e il furioso Otello trasformato in uno spassoso rap da ghetto black tra rime e cori da stadio. La platea è rapita da questo spirito, da questa forza propulsiva che ricorda ora Mel Brooks adesso i Monty Python, nel solco di quel demenziale intelligente (tra Squallor, Skiantos ed Elio e le Storie Tese), di quel catastrofico delirante, di quel sottile grossolano entusiasmo senza freni inibitori. E’ da ricordare la battaglia di spade in Giulio Cesare come la cintura che diventa il serpente di Antonio e Cleopatra. Irriverente e provocatorio il medley tra Timone di Atene, Riccardo III e Re Lear stritolati in una radiocronaca da match di football con sigla della Champion’s League annessa a colorare di quel nazional-popolare salvifico e antisnobistico. Potremmo dire che questo riassunto compresso di Shakespeare (forse si rivolterà nella tomba o forse si sarebbe divertito pure lui perché le persone intelligenti sono autoironiche) è una sorta di Rumori fuori scena dove la formula del teatro nel teatro è l’elemento cardine di questa compagnia scalcagnata (come quella che si affaccia dalle pagine dell’Amleto), buffona e ridicola, carnevalesca e carnascialesca in un continuo rapporto diretto con la sala tra gli occhi vividi e leggermente impauriti dalle pazzie, urla e schiamazzi, bizzarrie e placcaggi da rugby (Lorenzo Degl’Innocenti è un perfetto molesto Puck; tra gli altri ha lavorato per tante stagioni con il Maestro Giorgio Albertazzi).
I tre infatti si boicottano, litigano, si rincorrono sui palchetti, si accapigliano (Fabrizio Checcacci è il moderatore, castrato nella sua voglia di esprimere la propria arte nel monologo Essere o non essere), si azzuffano, si colpiscono con il coltello avvelenato intinto nel barattolo gigante di Nutella mentre l’antagonismo tra l’Ego, l’Io e il Superego di Ofelia (affidati con perifrasi iconiche a tre spicchi differenti di teatro) entrano inevitabilmente in collisione generando panico allegro e tremebonda empatia. In questa girandola di nomi e costumi, di morti e tragedie, ricordiamo Laerte che è un hipster afro (Roberto Andrioli presta il corpo a mille ruoli, si è diplomato alla scuola del Piccolo di Milano con Strehler), mentre Amleto assomiglia a Simon Le Bon cantando Mina. Appena la giostra si ferma ci chiediamo a che cosa abbiamo assistito: ad una guerriglia urbana, un marasma, un maremoto, uno tsunami, un terremoto, un disordine calcolato, uno sconvolgimento squilibrato, una ventata, un sorso andato di traverso, uno schiaffo, una confusione eccentrica, un fiume in piena, una farsa stralunata, una caciara beffarda, una derisione canzonatoria che questi tre guasconi impenitenti riescono a portare in scena con una prova fisica di resistenza, tenacia e grande amore per il teatro. Tutto il resto è silenzio. Tutto il resto è noia.
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