Custodire per trasmettere. Dialogo con un gruppo di storiche femministe forlivesi

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Manifestazione, 8 marzo 1978, Piazza Saffi, Forlì

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Fino a domenica 10 marzo presso l’Istituto Storico della Resistenza in via Cesare Albicini 25 a Forlì è possibile visitare la mostra Custodire per trasmettere. Testimonianze sui femminismi negli anni Settanta a Forlì.

Ne ho parlato con alcune donne che, a diverso titolo, hanno collaborato alla sua realizzazione.

Per meglio dar corpo al noi che muove il loro fare, hanno scelto di non indicare in questa conversazione i nomi di ciascuna.

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Partirei da un tema, mi rendo conto, smisurato, ma che vi chiedo per favore di provare a circoscrivere: quale definizione di femminismo davate negli anni Settanta e quale date oggi?

Noi di definizioni non ne abbiamo mai date, per noi il femminismo è stato un’esperienza. La riflessione non era tanto sul concetto, ma sulla realtà del momento e sui problemi. Il femminismo è partito da una presa di consapevolezza dell’essere donna sia come soggetto sociale che politico, con tutto ciò che comporta.

Il femminismo ha una lunga storia che nasce dal movimento suffragista in America e Inghilterra, è poi scomparso in occasione delle due Guerre Mondiali ed è arrivato a noi in modo dirompente dal 1968, in rapporto anche a movimenti operai e studenteschi. Inizialmente compagne e compagni insieme.

Poi il lottare insieme ha evidenziato che anche nella militanza politica perdurava la discriminazione e la divisione di ruoli tra maschio e femmina.

Da quel momento sono nati in tutta Italia diversi gruppi femministi.

A Forlì, nel 1975, nasce ad opera di Alternativa Femminista il consultorio autogestito dell’AIED (Associazione italiana educazione demografica), con sede in via Valzania.

Un luogo in cui un gruppo di donne e medici aiutavano altre donne ad affrontare con maggiore serenità temi come la sessualità, la contraccezione, la procreazione consapevole, l’interruzione di gravidanza.

In quel tempo l’UDI (Unione Donne italiane) si batteva affinché tutte le donne avessero il diritto al lavoro e ci fossero asili pubblici per l’infanzia.

I gruppi femministi analizzavano la condizione della donna nei vari ambiti, perché ognuna prendesse coscienza di sé come soggetto, per cui oltre al diritto al lavoro ci si interrogava su come dovesse essere il rapporto con il proprio corpo, con la sessualità, con le altre donne, con la madre e nella coppia, in sintesi una riflessione su sé nel mondo. Da qui nasce lo slogan «Il personale è politico», che significava superare l’idea patriarcale dell’esistenza, cioè di due sfere separate: quella pubblica del lavoro e della politica dominata dagli uomini e quella privata, della famiglia, della quotidianità nella quale le donne erano relegate e i loro problemi nascosti.

 

 

La mostra che avete allestito presenta immagini, testi e materiali d’archivio, come atto di testimonianza. Che cosa secondo voi è impossibile comunicare, nell’essenza della vostra esperienza personale di quegli anni? Detto altrimenti: che cosa io, uomo e che in quegli anni nascevo, non potrò mai capire, di ciò che è successo? 

Abbiamo fatto questa mostra e l’abbiamo chiamata Custodire per trasmettere perché abbiamo la sensazione che senza testimonianza le esperienze si perdano. Anche per questo tutto il materiale nella mostra è in copia, perché gli originali sono stati depositati   presso l’Istituto Storico della Resistenza che ci ha ospitato. Il lascito è aperto per potere accogliere altro materiale.

Molte giovani donne dei collettivi femministi della nostra città si sono meravigliate che siano esistiti nel passato movimenti femministi a Forlì. Questo perché chi è nato quando la contraccezione era già possibile, esisteva un nuovo diritto di famiglia, c’erano scuole dell’infanzia pubbliche e non confessionali, asili nido, il divorzio e l’aborto non può rendersi completamente conto di ciò che era il prima.

Tutto questo si può comprendere solo avendolo vissuto, così come il valore dell’autocoscienza.

Ogni esperienza è sempre personale e unica. 

Nei documenti che presentate si racconta, tra l’altro, della «decisione di parlare solo tra donne». Quali vantaggi e quali costi ha comportato, tale scelta? 

La decisione di parlare tra sole donne all’inizio è stata una necessità per garantirci una libertà di parola, trovare un nostro linguaggio, liberarci dai condizionamenti in vista anche del superamento del separatismo.

Il parlare tra donne ha evidenziato la mancanza di conoscenza del nostro corpo e della nostra sessualità. Questa consapevolezza ha creato un nuovo modo di intendere il rapporto sessuale di coppia superando gli stereotipi maschili.

Quella che si chiamava autocoscienza è stata necessaria per trovare un linguaggio per le sensazioni più intime e indefinite, in modo che si trasformassero in nuove parole e poi in nuovi modelli di relazione.

 

 

A proposito di presa di parola, e di linguaggio: la comunicazione militante dell’epoca avveniva anche attraverso una serie di slogan, urlati anche nelle manifestazioni di strada e di piazza. Mi fate qualche esempio? E soprattutto: in che maniera venivano decisi? Da chi? Secondo quali principi comunicativi e di contenuto? 

Gli slogan sono degli atti creativi estemporanei che hanno il dono della sintesi. Alcuni erano e sono aggressivi, alcuni ironici, altri dissacranti e nascevano spontaneamente, non a tavolino. Allora si parlava molto di «fantasia al potere». Alcuni, tipo il famoso «Io sono mia» sull’autodeterminazione della donna o «Il corpo è mio e lo gestisco io» sono ancora attualissimi, visti i tentativi da parte delle associazioni antiabortiste di minare certe conquiste. C’era anche lo slogan «Dito dito orgasmo garantito», detto per provocazione a indicare il diritto della donna ad appropriarsi di un piacere svincolato da quello maschile. Alcuni slogan, come quest’ultimo, possiamo dire che sono superati. 

«Angeli del ciclostile»: in quale contesto era usata questa orrenda definizione? E quali erano le vostre reazioni? 

Le problematiche delle donne non avevano trovato spazio all’interno dei gruppi della sinistra, dove regnava comunque un atteggiamento maschilista. Le donne venivano spesso relegate a ruoli secondari. L’espressione «angeli del ciclostile» indicava il ruolo subalterno, cioè quello di chi usava il ciclostile (macchina copiatrice a manovella) per stampare i volantini di controinformazione e di protesta. Agli uomini era riservato il ruolo di leader e di elaborazione e gestione della linea politica. Ma perché angeli? Nell’immaginario gli angeli sono esseri eterei, belli, asessuati, sempre gentili ed al servizio degli altri. È così che la cultura patriarcale ha sempre pensato e voluto le donne (vedi Angeli del focolare = casalinghe). Nel femminismo le donne rivendicano il diritto alla corporeità, al piacere sessuale, a tutti i sentimenti umani, rabbia compresa. Vogliamo essere solamente donne come dice uno slogan di allora: «Né puttane né Madonne, finalmente solo donne».

 

 

Eravate presenti, nel novembre 1976 a Rimini, all’ultimo congresso di Lotta Continua. Anche a partire da alcuni problemi accaduti a Roma, nel dicembre precedente, durante la prima manifestazione di sole donne, prendeste la parola per denunciare la struttura gerarchica e maschilista dell’organizzazione. Quegli interventi contribuirono allo scioglimento del movimento. Immaginavate, o desideravate, un tale esito? 

All’interno di Lotta Continua fu necessario prendersi uno spazio di confronto di sole donne per acquisire una maggiore consapevolezza della nostra identità, che era sempre più in contraddizione con lo stampo gerarchico e maschilista dell’organizzazione. Emersero resistenze nel riconoscere una specificità politica delle donne e contraddizioni che convivevano sempre più a fatica. Nel dicembre 1975 a Roma la prima manifestazione nazionale femminista per la depenalizzazione dell’aborto venne contestata perché composta di sole donne e ritenuta settaria rispetto ai principi unitari della lotta di classe. Ci fu una vera e propria prova di forza da parte del servizio d’ordine della sinistra extraparlamentare per prendere la testa del corteo. All’interno dell’organizzazione questo episodio generò una grande conflittualità. L’anno successivo, al congresso nazionale di Rimini, in un clima di forte tensione salimmo sul palco e prendemmo la parola. Denunciammo la struttura gerarchica e maschilista dell’organizzazione, sempre più distante dai problemi reali della società. Questa presa di posizione delle donne, insieme al timore della dirigenza nazionale di una deriva terroristica di piccoli gruppi interni al movimento, fu determinante per lo scioglimento di Lotta Continua. 

Nel ’77, a Parigi, insieme a una cinquantina di donne forlivesi partecipaste al primo Congresso Internazionale Femminista. Potete nominare una scoperta e una delusione, rispetto a quella esperienza? 

Leggemmo sulla rivista femminista “Effe” del congresso internazionale femminista a Parigi. Con un passaparola decidemmo di partecipare e ci organizzammo. Eravamo una cinquantina di donne di Forlì, Forlimpopoli e Cesena e partimmo in treno alla volta di Parigi. Fummo ospitate nelle case delle compagne francesi e ci recammo all’università di Vincennes per partecipare al congresso. Circa seimila donne arrivarono da vari Paesi, mentre ne erano previste solamente alcune centinaia. Per motivi organizzativi fu dunque pressoché impossibile partecipare alle varie commissioni che si occupavano dei principali temi del movimento femminista. Nello spazio “la piazza” ci ritrovammo e lì furono improvvisati piccoli dibattiti, spettacoli con momenti di festa. Fu una esperienza importante ed entusiasmante ritrovarci per alcuni giorni in contatto con tante donne di diverse nazioni. Fu importante esserci e ci comunicò molta forza.

 

Manifestazione, 8 marzo 1978, Piazza Saffi, Forlì

 

L’anno seguente, l’8 marzo, organizzaste una manifestazione in Piazza Saffi a Forlì. Quali effetti ebbe, a seguire, sul territorio? 

L’8 marzo si scendeva in piazza, come si scende ancora (finché ce lo fanno fare!) per testimoniare che ci siamo, siamo presenti, stiamo lottando. Non è una singola manifestazione a fare la differenza. Nel 1978 a Forlì funzionava ancora il consultorio autogestito da un gruppo femminista, già quello era un modo per incidere sul territorio. 

«Le donne han capito chi è il nemico» è uno dei versi di Avete mai guardato, una delle canzoni che hanno accompagnato la vostra lotta di quegli anni. Chi era, allora, il nemico? 

Leggendo il testo emerge che il nemico è il capitale, che ci guadagna sul costo zero del lavoro domestico sempre a carico delle donne (ricordiamo che allora c’erano movimenti per il salario alle casalinghe). Continuando, il testo di Avete mai guardato dice «A te resta l’inganno, il mito della madre»: questo è patriarcato.

In un’altra canzone, Noi siamo stufe, si dice «Ci han divise tra brutte e belle, ma tra di noi siamo tutte sorelle». Sorellanza è una delle nuove parole del femminismo di allora. Nel 1949 Simone de Beauvoir, nel libro Il secondo sesso, scriveva «Le donne non hanno una base comune su cui costruire un movimento forte: non hanno un passato, una storia, una religione che unisca e vivono disperse in mezzo agli uomini senza un collante». Le lotte dei gruppi femministi degli anni Settanta hanno rappresentato il collante da lei auspicato. 

Tale contrapposizione è valida anche oggi? Se sì: chi è il nemico, oggi? 

Oggi è tutto un po’ più complesso ma, se analizziamo la realtà, i frequenti femminicidi ci dicono che la nostra società è ancora intrisa dei valori arcaici ed oppressivi della cultura patriarcale.

Vorremmo precisare che siamo contro il patriarcato, ma non abbiamo mai considerato gli uomini come nemici. Anzi li avremmo sempre voluti accanto per cercare e trovare insieme un nuovo modello di relazione paritaria. 

Restando sull’oggi: cosa è cambiato, nella possibilità di dialogo tra donne e uomini sui temi della parità di genere e della libertà di autodeterminarsi, secondo la vostra personale esperienza? 

Cosa è cambiato? Ci sono uomini che si sono “evoluti” condividendo nella coppia sia il lavoro domestico sia la cura dei figli, che si confrontano e dialogano credendo in una relazione paritaria. Altri uomini, come dimostrano i tanti maltrattamenti e femminicidi, non sono disponibili ad accettare l’autodeterminazione delle donne. In particolare non comprendono e non accettano che la donna possa decidere di chiudere la relazione. Noi poniamo questa domanda: «La società nel suo complesso (istituzioni, chiesa, scuola ecc) ha la volontà e la capacità di trasformarsi per una vera parità di genere?».

 

 

Quali relazioni ci sono, oggi, tra il vostro Gruppo e le altre realtà, anche più giovani, che nel territorio forlivese e romagnolo lavorano su temi affini? 

Noi siamo persone provenienti diverse esperienze politiche e femministe, ci siamo reincontrate per un lavoro di archiviazione e storicizzazione dei femminismi degli anni Settanta a Forlì, affinché ci sia testimonianza di ciò che è accaduto. A quei tempi le nostre urgenze e i nostri temi di lotta erano diversi da quelli di oggi, diremmo quasi arcaici. Adesso certe cose sono date per scontate, sembra ridicolo pensarci ora, ma si lottava anche per potere uscire la sera da sole, fumare in strada, vestirci come ci pareva. Oggi si stanno evidenziando altre lotte legate al genere, nuove e complesse per noi e al momento ci sentiamo vicine, ma in difficoltà a fare sintesi. Questi temi li mettiamo accanto ai nostri cercando punti in comune, come ad esempio la violenza contro le donne. Ci siamo comunque incontrate con le ragazze dei nuovi gruppi femministi: loro hanno partecipato all’inaugurazione della mostra Custodire per trasmettere, noi abbiamo aderito e partecipato alla manifestazione del 16 dicembre 2023 a Forlì contro la violenza di genere.

L’intenzione è continuare a mantenerci in contatto. 

Si sta affinando, in molti settori della società, l’attenzione a come nominare le molteplici identità sessuali (uso dello schwa e degli asterischi, evitamento del maschile sovraesteso, eccetera). Analogamente a mezzo secolo fa, anche se in forme e con contenuti diversi, il linguaggio crea il reale, non solamente lo descrive o commenta. Quali difficoltà e quali sorprese trovate, oggi, nel trasmettere i contenuti di allora?

La scelta dello schwa, degli asterischi, è una nuova realtà, non è un’invenzione per gioco. Noi avevamo introiettato il maschile sovraesteso e ancora oggi ci viene naturale usarlo, per cui ogni volta dobbiamo pensarci e correggerci. In questo Michela Murgia era lucidissima e rigidissima, aveva ragione. Questo è un lavoro che dobbiamo fare, anche riferito a come nominare le attività un tempo solo maschili. Ricordiamo che anche nella pratica dell’autocoscienza c’è stato un lavoro per trovare le nostre parole, nuove e originali, ne abbiamo inventate tante proprio perché sono le parole che determinano il reale.

In che modo secondo voi è possibile incoraggiare le nuove generazioni a «passare dall’io al noi»?

Perché noi dobbiamo incoraggiare? Non è un atteggiamento paternalista, questo? Quello che noi possiamo fare è testimoniare, che è ben diverso, come dice il titolo della mostra, Custodire per trasmettere. Poi ogni generazione troverà la propria strada anche di lotta e per quella per un nuovo linguaggio e noi staremo all’ascolto, ben felici di vedere che altre persone proseguono le tante strade aperte da noi e dai movimenti femministi che ci hanno preceduto, magari trovando altri percorsi.

 

 

Infine: posso chiedervi alcuni consigli di nutrimento per neofiti (libri, film, dischi, spettacoli, progetti, …) sui mondi del femminile e dei femminismi?

Vorremmo indicare alcuni testi degli anni Settanta che hanno accompagnato le ragazze di allora:

Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, 1973

Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne (The Boston Women’s Health Book Collective), 1974

Le parole per dirlo di Marie Cardinal, 1975

Rosa confetto di Adela Turin e Nella Bosnia, 1975. È il primo libro illustrato per l’infanzia sulle questioni di genere.

Film: La scelta di Anne di Audrey Diwan, 2021. Ambientato negli anni Sessanta, sul tema dell’aborto clandestino.

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