Starsene amando l’amato: note su Gnanca na busia di Clelia Marchi (pensando a Cristina Campo e Ada d’Adamo)

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Le opere d’arte, quando sono tali, ci interrogano.

Per il niente che può contare, innanzi tutto per la collocazione editoriale di queste brevi note: nella mia neonata rubrica Donne valorose, ho deciso di inserire qualche pensiero su Gnanca na busia, romanzo di una vita scritta su un lenzuolo da Clelia Marchi e recentemente ripubblicato da il Saggiatore.

Donne valorose, sia detto per inciso, è una rubrica della rivista Gagarin Orbite Culturali nata per affacciarsi ai mondi del femminile e dei femminismi: interviste (le prime fatte a Mariangela Gualtieri, Vera Gheno e a un gruppo di storiche femministe forlivesi), recensioni, racconto di progetti ed esperienze. Pensando che il patriarcato si possa smontare anche studiando, ascoltando, incontrando.

Cosa c’entra, in tale contesto, l’autobiografia di una contadina semi-analfabeta vissuta «amando l’amato», per citare il verso di Cristina Campo preso a prestito nel titolo di queste note?

A un primo sguardo, nulla: non vi è alcuna forma di ribellione, apparentemente, a un destino di fatica e fame, miseria e morte.

C’è l’amore devoto e ineludibile per un marito che incarna un patriarcato mai messo in discussione, neanche intimamente.

Il supporto stesso su cui il breve romanzo è scritto, un lenzuolo matrimoniale ora conservato presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (AR), è traccia delle notti insonni dopo la morte dell’adorato marito: se è vero che «il medium è il messaggio», si potrebbe dire evocando un po’ a sproposito Marshall McLuhan, affidare il racconto di tutta la propria esistenza a un mezzo che non solo evoca, ma letteralmente consiste nel luogo dell’intimità matrimoniale per antonomasia, suggerisce il voler affidare a quella relazione amorosa e, traslando, al compagno d’amore, tutto il senso del proprio esistere.

A dipanare questo personale rovello sono arrivate, in questi giorni, le pagine di altre due donne valorose: l’ennesima rilettura della raccolta La tigre assenza di Cristina Campo e, buon ultimo, la commossa lettura del Premio Strega 2023 Come d’aria di Ada d’Adamo.

 

 

Peculiarità tematiche e biografiche non potrebbero che sideralmente allontanare queste tre autrici.

Basti ricordare Pietro Citati a proposito di Cristina Campo: «Questa anacoreta possedeva un garbo mondano, una grazia squisita e inafferrabile, come una signora italiana del Rinascimento, o una dama della Fronda», o lo spessore intellettuale di Ada d’Adamo, colta e competente studiosa di danza, autrice di numerosi saggi sul teatro e la danza del Novecento.

Trait d’union non è nemmeno, forse, l’«attenzione interiore» (per stare con un altro verso di Campo): lusso e attitudine certo toccati più in sorte alla poetessa e alla studiosa che alla contadina di Poggio Rusco.

Ciò che forse unisce, come d’altronde sempre accade quando si tratta di arte, queste tre autrici è la questione del linguaggio in relazione col reale.

«Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi»: lo disse Cristina Campo ma potrebbe valere per Ada d’Adamo -se per cose possiamo fenomenologicamente intendere tutto ciò che costituiva il suo mondo, in primis l’amata figlia Daria– e certo vale per Clelia Marchi, nel suo nominarle, dunque farle esistere, sbilenco e terrigno.

È una lingua, quella di Marchi, che ostende in piena nudità la propria fragilità.

Come non pensare, per analogia, alla nuda esattezza delle pagine di Come d’aria?

Con il correttivo, nel caso di Gnanca na busia (neanche una bugia, nomen omen: è letteratura che si impasta di reale, questa!) della creazione di un segno inedito.

Assume la forma di un lungo poemetto in grammelot, questo testo in cui il significante evoca il reale più e prima del significato letterale, in cui le sgrammaticature a tratti sono talmente vorticanti da richiedere il pieno e semplice affidarsi alle parole e così etimologicamente commuoversi, cioè -per qualche decina di pagine- muoversi insieme.

Ogni parola è talmente impastata di corpo e di voce da immaginarsela detta all’orecchio, riga dopo riga, quest’avventura di vita e linguaggio.

A ricordarci, qualunque sia la biografia toccata in sorte, che vi è valore creativo, finanche creaturale, nell’élan vital che rende la comunicazione un gesto, un atto, un dono.

 

 

Una nota a margine, per concludere: l’edizione de il Saggiatore di Gnanca na busia si chiude con una postfazione di Vinicio Capossela. Ecco, mi son detto quando ho visto la copertina del volumetto, è una furba mossa editoriale dal sapore un po’ colonialista e patriarcale, mettere un maschio cisgender di successo a «validare culturalmente» l’opera di una contadina semianalfabeta e semisconosciuta.

Mi sbagliavo: quelle di Capossela sono quattro pagine scritte con grande cura e grandissimo rispetto, che come è giusto aprono nuovi pensieri, suggeriscono con forza ulteriori questioni.

Le opere d’arte, quando sono tali, ci interrogano.

Sì.

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