Corpi parlanti: Tita Tummillo De Palo e Francesca Leoni

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«Il corpo è mio e me lo gestisco io»: uno dei noti slogan del Femminismo storico (come si sa e come ben han raccontato e motivato alcune agguerrite attiviste forlivesi in una precedente puntata di questa rubrica – QUI per chi fosse curiosə), con il correttivo del comune orizzonte specificamente artistico accomuna le recenti creazioni di Tita Tummillo De Palo e Francesca Leoni.

Una raccolta poetica, il mio senza nome, edita da Eretica edizioni, per Tummillo De Palo, una creazione videoartistica, Medusa, prodotta da Vertov Project, per Leoni: le intreccio, in queste brevi note, per due ragioni, una (auto)biografica e una tematica.

Entrambe curatrici, ho conosciuto Tummillo De Palo a Forlì, durante un’edizione di Ibrida – Festival delle Arti Intermediali co-diretto da Francesca Leoni insieme a Davide Mastrangelo.

Sono poi stato invitato a Bari, all’edizione 2022 di BIG, il Bari International Gender Festival co-diretto da Tita Tummillo De Palo insieme a Miki Gorizia (QUI il mio report di quei giorni entusiasmanti, per chi fosse curiosə).

Al di là dell’occasione personale quel che mi pare opportuno sottolineare, in questa sede, è come la curatela divenga, in questi casi, gesto creativo, finanche creaturale -dunque ontologicamente femminile- se e in quanto si fa carico di portare maieuticamente alla luce (ponendoli nel «regime del sensibile», potremmo dire con Jacques Rancière) autorialità e creazioni altrimenti molto difficilmente conoscibili.

Inoltre entrambe le artiste si occupano, da molteplici prospettive, di performance -video e/o in presenza.

Ai fini del presente piccolo discorso vale forse ricordare come a differenza del teatro, in cui convenzionalmente si interpreta un qualche personaggio e nella dinamica relazionale con chi fruisce l’opera la «sospensione dell’incredulità» è prerequisito indispensabile affinché l’incontro possa aver luogo, nella performance ci si presenti e si agisca in prima persona, fenomenologicamente ci si esponga e si venga lettə in quanto tali.

Tale caratteristica, mi sembra, accomuna le più recenti opere di queste due artiste.

 

 

Nella silloge di Tummillo De Palo con poche, secche, ben dette parole un io desiderante si manifesta in un’inestricabile interezza corpo-mente, rivolgendosi senza posa a un tu che è prima di tutto Leib, corpo vissuto e agito, unità indivisa di percezione e azione.

Vien da pensare alla Teoria degli atti linguistici di Austin (bei ricordi degli anni gloriosi del DAMS): «dire qualcosa è fare qualcosa».

Ciò che sembrano fare, i versi carnali e carnosi di Tummillo De Palo, è un balzo felino verso chi legge, uno stare ferino tra le righe e le pagine, in esercizio acuto di attenzione al presente dell’incontro tra corpi.

«E se il corpo non è l’anima, l’anima cos’è?» si e ci chiederebbe, allargando lo sguardo, Walt Whitman.

Analoga interrogazione a partire dal corpo femminile è nella video-opera Medusa di Francesca Leoni (QUI, per chi fosse curiosə, una sua densa, recente conversazione con Sara Papini su Juliet Contemporary Art Magazine).

 

frame dal video Medusa di Francesca Leoni, 2024 – courtesy Vertov Project – ph Mike Cimini

 

In un algido non-luogo di campiture monocrome sette performer (in questo caso è quanto mai appropriata l’accezione sopra esplicitata) raccontano e si raccontano, a partire dal personale rapporto con i propri capelli.

Il trattamento video in chiave anti-naturalistica è minimale quanto significante, a ricordarci ancora una volta -e sa il cielo quanto ce ne sia bisogno, soprattutto quando oggetto delle opere son le (auto)biografie- che l’arte è sempre e comunque innanzitutto questione del come, prima e più che del cosa.

È avventura del linguaggio: saperlo padroneggiare (e al contempo farsi attraversare), è ciò che può rendere un atto comunicativo efficace.

Vi è in questi due casi, azzardo, una carsica sorellanza (per usare un altro tema caro ai femminismi, come anche Vera Gheno ha raccontato in una precedente puntata di questa rubrica – QUI per chi fosse curiosə), che sembra collocarsi non nella fede, o peggio nell’ideologia, ma nell’atto, radicale e rivoluzionario, di mettersi linguisticamente a nudo.

Bisogna volerlo fare. Bisogna saperlo fare.

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