È tutt’altro che muto, l’Arlecchino di Stivalaccio Teatro

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Martedì 27 febbraio. Sera, piove, così affretto il passo verso il Teatro Masini, nel centro storico di Faenza, dove tra poco inizia Arlecchino muto per spavento nell’allestimento di Stivalaccio Teatro.

Nel bar vicino alla piazza un gruppetto di uomini nordafricani chiacchiera in una lingua a me ignota. Ridacchiano, al riparo di una tenda sdrucita.

Penso ai viaggi dei Comici dell’Arte, al loro esser popolari per necessità prima che per virtù.

Penso all’atavica fame dello Zanni che esigeva di far contenti i pubblici (plurale fenomenologicamente necessario) per guadagnarsi la pagnotta quotidiana.

Mi chiedo se questi signori sotto la tenda lo apprezzerebbero, l’Arlecchino che sto per incontrare.

Mi domando se e come è possibile una vera comunicazione pre-culturale (transculturale, direbbe qualcuno) o se qualsiasi forma, anche la più estroflessa, non può che essere culturalmente (dunque geograficamente, dunque socialmente) collocata.

Detto altrimenti: a che livello ciò che fa ridere un anziano indigeno della Nuova Guinea può fare lo stesso effetto su un teenager di Tokyo o su di me?

Mi accomodo nel palchetto laterale, nel teatro strapieno, con questi pensieri.

E il poderoso spettacolo inizia.

 

 

Poderoso: uso questo aggettivo per almeno tre motivi.

Il primo: scenografie girevoli, costumi e maschere raffinati, nove attori in scena (e che attori: Sara Allevi, Marie Coutance, Matteo Cremon, Anna De Franceschi, Pierdomenico Simone, Michele Mori, Stefano Rota, Maria Luisa Zaltron e Marco Zoppello, anche regista e autore del soggetto originale). Praticamente un kolossal.

Il secondo: compreso un breve intervallo sono due ore e mezza di spettacolo, leggo in un cartello affisso in biglietteria. Se come ben ci racconta Lisa Iotti in questa «era della distrazione» 8 sono i secondi della nostra, mediamente, possibile piena attenzione, auguri mi dico. E invece.

Il terzo: una ridda di segni che vengono offerti alla platea. Fiumi di testo, intrisi di dialetti e multilinguismo, con doppi sensi a ripetizione, allusioni, esortazioni, imprecazioni. Canzoni e duelli, duetti e parate. Codici gestuali extra-quotidiani che stilizzano la coreografia, termine che uso qui nel senso etimologico di «scrittura di corpi nello spazio», di questa stralunata ed esattissima Armata Brancaleone surreale e plausibile.

Corpi: fisici, certo, ma anche sonori (le molte lingue in scena, appunto, gli strumenti musicali suonati dal vivo e le polifonie popolari intonate con divertita esattezza). E materici: le maschere del Maestro Stefano Perocco di Meduna e le loro «smorfie inamovibili», per citare il felice ossimoro usato nei materiali di presentazione, le diverse consistenze delle stoffe dei costumi, il legno delle scenografie. E i corpi del pubblico: sovente interpellato, sia verbalmente che spazialmente, con ripetuti attraversamenti e invasioni della platea, in una relazione sferzante ma mai aggressiva, rutilante ma senza eccesso.

 

 

«C’è del metodo in questa follia»: si potrebbe forse così sintetizzare, col Polonio dell’Amleto shakespeariano, questa creazione vorticosa che sembra riprendere lo spirito di ciò che la Commedia dell’Arte era, a partire dalla prima ufficiale Fraternal Compagnia padovana nel 1545 e poi, ancorché progressivamente scemando di vigore e forza linguisticamente rivoluzionaria, nei due secoli successivi.

Non un genere teatrale, quello che Stivalaccio Teatro rimette in vita, ma un metodo di produzione, fatto della capacità all’improvvisa di adattarsi e stare in relazione con il pubblico, e farlo contento.

Contento, e molto, certo lo era, quello del Teatro Masini, l’altra sera.

Contento sarebbe stato, ipotizzo, anche il gruppetto di signori nordafricani incrociati al bar: si sarebbero forse riconosciuti, azzardo, come portatori di segni prima che di contenuti, di significanti prima che di significati.

Ecco forse, un possibile livello di condivisione collocabile prima delle differenze individuali: esseri viventi che ricevono un sapiente sistema di forme in movimento che valgono in primis in quanto tali. E se non si colgono tutti i dialetti, le leggi che regolano le relazioni spaziali tra le Figure o i codici gestuali è comunque gratificante, e molto, percepirne la consistenza e il progredire.

Così come si può apprezzare un brano musicale senza conoscere le regole dell’armonia e della composizione o gustare una torta anche ignorandone la ricetta, analogamente è forse possibile fruire l’Arte del Teatro (maiuscole non casuali), quando è tale: sideralmente distante da autocompiaciuti intellettualismi, questo eloquentissimo Arlecchino fa festa coi sensi e col senso, di tutti e di ciascunə.

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