Visioni 2024 – Sguardi dall’estero

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A Bologna la settimana scorsa si è tenuto un Festival di teatro per i piccolissimi, i bambini da 0 a 6 anni, ricco di proposte di sguardo provenienti da centri teatrali nazionali e non.

Il festival si chiama Visioni, organizzato da La Baracca – Testoni Ragazzi.

Ne ho già parlato QUI e vorrei proseguire in questo articolo l’analisi di alcuni degli spettacoli a cui ho assistito, focalizzandomi questa volta su alcune prospettive di sguardo che vengono da altri Paesi.

La caratteristica di molti spettacoli per la prima infanzia, tendenza più diffusa all’estero che in Italia, è di non seguire una storia, un racconto con il suo ordine di eventi, ma piuttosto di far vedere e far sentire movimenti, situazioni, immagini, forme, suoni.

Questo determina una posizione più attiva nel pubblico, che non è relegato ad una posizione di ascolto ma che deve costruire, assieme al performer, dei significati partendo da quello che sperimenta.

D’altronde, come ha ribadito in uno degli incontri del festival Gerd Taube, direttore del Kinder und Jugend Theater Zentrum di Francoforte, la drammaturgia deve considerarsi come una coproduzione tra drammaturgo, performer e pubblico.
A maggior ragione questo è vero quando il pubblico è una platea di bambini, per i quali è impossibile tenere chiusa la bocca.

Negli spettacoli che ho visto e di cui parlerò non c’è una vera e propria narrazione da seguire, ma questa modalità non-narrativa è declinata in diverse forme, che rendono la rappresentazione più o meno astratta. Ad esempio i personaggi possono essere ben definiti, oppure non rappresentare nessuno in particolare, analogamente la scenografia può costruire un mondo conosciuto, inventarne uno o rimanere indeterminata, stessa cosa per le musiche, uno spettacolo può usare canzoni, suoni prodotti in scena, musica classica, silenzi, musiche originali, e così via.

 

 

Nello spettacolo Blikvangers (Acchiappasguardi) della prolifica compagnia olandese DeStilte, in scena ci sono due danzatori e una musicista, che interpretano personaggi curiosi, giocosi, un po’ timorosi, che toccano tutto e sperimentano tutto con mente aperta e sguardo puro, senza dire una parola (a parte qualche “ehi”).

Sono come tre bambini piccolissimi, che esplorano il mondo che hanno intorno, fatto di oggetti strani: tubi, teli da proiezione, aste, corde, ciotole, grossi tasselli di legno. Nel corso dello spettacolo ognuno di questi oggetti si rivela in grado di produrre un suono (le ciotole sono percussioni, le aste strumenti a corda, i tasselli sono frammenti di xilofono).

I tre personaggi vengono lasciati liberi di esplorare, costruendo una relazione tra di loro (cercandosi, nascondendosi, annodandosi in complicati giochi di abbracci) e tra loro e l’ambiente.

L’intento dello spettacolo sembra proprio quello di ricostruire un mondo primigenio, che rappresenti il mondo del bambino, in cui, con mente aperta e superando il timore, si scopre la bellezza nascosta in ogni passo, in ogni contatto e in ogni suono.

Anche ai bambini stessi è data la possibilità di entrare in quel mondo. Infatti al termine dello spettacolo (cioè quando si accendono le luci di sala), i bambini sono invitati sul palco a interagire con gli oggetti, una sorta di rito finale di chiusura della rappresentazione.

 

 

Di Acchiappasguardi ce n’è stato più di uno. Augenschein & Blickfang (Punti luce e acchiappasguardi) è il titolo dello spettacolo della compagnia austriaca Breloque Theatre Group, che vede in scena un attore, una pittrice e un musicista.

In questo caso i tre non interpretano particolari personaggi, ma portano sulla scena la propria professione. La pittrice dipinge, il musicista suona e l’attore inscena gag e pantomime mute. Lo spettacolo intreccia sapientemente le tre performance, legando i movimenti e le azioni di ognuno con quelle degli altri.

Muovendosi davanti, dietro, sopra e attorno ad una grande tela bianca, l’attore Andreas Simma interpreta, con l’arte del mimo, diversi personaggi, tutti spassosi e caricaturali (un pescatore, un bellimbusto in spiaggia, un insegnante, un politico…).

I personaggi e i gesti di Simma però sono legati alle azioni della musica e della pittura.

Il musicista crea melodie (con vari strumenti e loop station) che danno il ritmo al movimento e creano un’atmosfera. Ma non solo: aggiunge suoni che interagiscono direttamente con l’attore (ad esempio ricrea il verso di un gabbiano, con il quale Simma entra in conflitto).

La pittrice dipinge la tela bianca con tecniche diverse: scrostando gesso per rivelare un disegno già fatto, spruzzando vernice, dipingendo linee, lasciando impronte. Nel farlo, spesso, dipinge anche l’attore, pennellando la sua camicia, sporcandogli i piedi quando lui cammina sulla vernice fresca. Oppure interagisce con lui facendogli tenere il colore (con cui lui si mette a giocare), calcandogli in testa un cappello e così via.

Ne risulta un intricata coreografia a tre, piena di gag, in cui il pubblico non riesce a tirare fiato dalle tante risate, e che porta alla realizzazione di una grande pittura astratta.

Sembra uno spettacolo semplice, ma è molto denso, pieno di contenuti. Ne ricordo uno in particolare, quando Simma intepreta uno studente intento in un dettato, ripetendo le parole, poco alla volta le carica di ritmo e ferocia, finchè il tono non diventa simile ad un violento comizio.

In pochi secondi la dettatura è diventata dittatura. Un gioco di parole fatto quasi senza parlare, col movimento, la musica, il contesto.

 

 

Il terzo sguardo dall’estero di cui voglio parlare viene da molto più lontano, dal Giappone.
Si tratta dello spettacolo Can (Barattolo) della Stick Company con Kiyofumi Yamamoto.

Questo spettacolo è veramente semplicissimo.

Un personaggio (forse un netturbino, per via della scopa) è alle prese con una fila di barattoli diversi. Inizia ad assemblarli e costruisce piccole cose e personaggi, senza che ci sia un nesso tra uno e l’altro. La prima cosa che realizza è una macchina fotografica. Poi una radio, un grande robot, un elefante (assembla solo la proboscide), infine un piccolo re.

Nel caso dell’elefante è come se l’animale fosse già presente da qualche parte, prima ancora di essere costruito. Si sente un barrito e sta a Kiyofumi capire da quale barattolo proviene: è lì che si nasconde l’elefante.

Come a dire che c’è una una sorpresa celata in ogni cosa, anche in alcuni semplici barattoli. Ma si può cogliere solo con un atteggiamento aperto all’ascolto e pronto al gioco, che rende questa scoperta possibile (richiamando il “can” del titolo nel significato di “poter fare”).

Un atteggiamento che mi ricorda molto quello della poesia Haiku, i componimenti brevissimi della tradizione letteraria giapponese, che descrivono elementi del quotidiano, perlopiù del mondo naturale, cercando di svelarne la bellezza nascosta.

Effettivamente il minimalismo di Can è simile a quello degli Haiku. E come questi, anche lo spettacolo è un momento descrittivo che non sembra avere un inizio né una fine. Semplicemente mostra una prospettiva di sguardo e propone una visione.

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Per concludere ritorno a considerare il discorso sulla drammaturgia fatto da Gerd Taube e accennato prima. La drammaturgia deve essere in grado di costruire la struttura dello spettacolo coinvolgendo insieme performer e pubblico.

Ci sono modi diversi per farlo, che sia in una particolare disposizione dello spazio scenico che porti lo spettatore a scegliere attivamente cosa e come guardare  (come ne Il labirinto di Daniel Gol), in un rito finale che porti il pubblico sul palco tra i performer (è il caso di Blikvangers), oppure anche trascinando la platea in una grassa risata, democratica e partecipata (come in Augenschein & Blickfang).

Ma qual è l’importanza del rendere il pubblico partecipe? Di non considerarlo semplice ascoltatore ma protagonista stesso di ciò che osserva?

Forse si può rispondere con le parole di un poeta giapponese, Mitsuo Aida, maestro di Shodō (l’arte della calligrafia):

“Credo che solo ciò che si sperimenta
diventa davvero nostro.”

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