Bonnie Dobson, rugiada mattutina (nucleare)

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Strani, certi personaggi – gente come Fred Neil, Cyrus Faryar, Karen Dalton o Vince Martin, cui è bastato poco per influenzare intere generazioni, per essere stati gli iniziatori di gente che poi ha conquistato il mondo: come si dice, la scintilla che fa scattare il fuoco. Fra costoro, bisogna certamente annoverare Bonnie Dobson, canadese errabonda che ora risiede a Londra: a lei si deve la stupenda ballata Morning Dew, pezzo a carattere apocalittico-nucleare che davvero ha attraversato il mondo della musica come pochi altri scritti negli anni Sessanta, passando di mano in mano fra i già citati Fred Neil/Vince Martin, Tim Rose, i Grateful Dead, il Jeff Beck Group, Lee Hazlewood, Long John Baldry, gli Einstürzende Neubauten, i Devo, i Droogs, Hugo Race, Robert Plant. Per farla corta, quel brano è un talismano, multiforme e fatto per essere plasmato a piacimento.

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Bonnie Dobson, però, non è solo quella canzone – è una delle prime grandi folksinger e autrici, di quelle che si devono mettere accanto alla connazionale Buffy Sainte-Marie o a Judy Henske, per esempio – di quelle che il ruolo della donna lo hanno davvero emancipato. Bonnie Dobson è anche dischi di sublime bellezza come She’s Like A Swallow (1960), Dear Companion (1960), Good Morning Rain (1970) e sopratutto l’irrinunciabile Bonnie Dobson (1972) – e, album a parte, Lady Dobson è pure un mistero: per quasi trentacinque anni è sparita dalle scene, come un’altra grande desaparecida quale Bobbie Gentry ella è stata colta dalla “sindrome J.D. Salinger”, ossia di sottrarsi al mondo, almeno quello della musica – più prosaicamente, però, Bonnie ha solo messo su famiglia. Adesso, con più tre quarti di secolo alle spalle è finalmente tornata fra noi – e lo ha fatto al meglio, con un paio di album di assoluto valore che riprendono vecchi suoi classici e aggiungono altre perle a un repertorio davvero prezioso come pochi: specie l’ultimo Take Me For A Walk In The Morning Dew (2014) merita rispettosa attenzione, siccome la signora Dobson dimostra di non aver perso una virgola di quel suo magnifico stile senza orpelli, dritto-al-punto e con tanta, tanta interiorità espressiva.

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Da vera folkie vecchio stile, il posto scelto per il suo concerto londinese di quest’anno è un bellissimo, classico pub con sala concerti – che gli accorsi riempiono in religioso silenzio e orecchie ben aperte. Lei, voce vibrante di un usignolo e accompagnata dal perfetto Ben Phillipson, ricambia con due set di quarantacinque minuti l’uno i quali sono vera poesia di musica cosmica, che quasi pare preservata nell’ambra tant’è inviolata e sacra: naturalmente Morning Dew è il momento culmine, riportata alla propria essenza originale da colei che l’ha scritta e interpretata per prima – ma non solo. Il concerto regala perle, per una volta non ai porci, che davvero brillano di luce propria, come per esempio Winter’s Going («Jarvis Coker mi ha confidato essere una delle sue canzoni preferite di sempre»), I Got StungSouthern BoundSail Away Lady («L’ho imparata ascoltandola a un concerto di Odetta nel 1958 a Toronto» – quanto avremmo voluto essere a quel concerto!), Last Night I Dreamt Of CanadaCome In DancingPeter Amberley («Bob Dylan si è appropriato di un paio di versi per The Ballad Of Donald White – però una volta, pensate, mi ha accreditato durante un concerto» – e il pubblico si unisce in fragorose risate), la leggendaria Let’s Get Together di Chet Powers aka Dino Valenti aka Dino Valente aka Jesse Oris Farrow, l’altrettanto leggendaria Everybody’s Talkin’ di Fred Neil e sopratutto quella Land Of The Silver Birch, ballata in minore che è uno dei grandi segreti nascosti dell’intero folk canadese (almeno per i forestieri come noi) e che siamo pronti scommettere, visto che ci piace rischiare, abbia forgiato non solo Bonnie Dobson ma anche i giovani, giovanissimi Gordon Lightfoot, Buffy Sainte-Marie, Leonard Cohen e Joni Mitchell. Per il resto, come dice quel tale, se non è nuovo ma non diventa vecchio, allora è folk – e la nostra splendida Canadien errant del vero folk ne è perfetta personificazione.

CICO CASARTELLI

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