Vite d’acciaio

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Precari / Cineforum, questo il titolo della rassegna cinematografica in svolgimento a Faenza, organizzata dalla Società cooperativa di cultura popolare, che da oltre trent’anni si occupa di ridisegnare le geometrie delle proposte culturali con laboratori e iniziative. Proprio all’interno della rassegna, è stato presentato Acciaio, tratto dal fortunato romanzo di Silvia Avallone, per la regìa di Stefano Mordini, che abbiamo raggiunto, cogliendo l’occasione per una chiacchierata sul bel lungometraggio presentato all’ultimo festival di Venezia.

In Acciaio, è centrale la tematica del lavoro, che lei sembra voler raccontare in quanto elemento di coesione e fondamentale importanza nei rapporti sociali e nelle relazioni interpersonali tra i protagonisti della storia. Qual è la sua interpretazione?

«In Acciaio e non solo, sono da sempre convinto che un’attenta rilettura dei diritti acquisiti in chiave progressista sia al centro dei rapporti sociali. Negli ultimi trent’anni, un preciso progetto neoliberista ha lavorato alla divisione sempre più netta delle classi sociali. Abbiamo assistito in silenzio ad una lotta di classe dall’alto verso il basso. A farne le spese coloro che hanno creduto in una rappresentanza che purtroppo non ha saputo controllare questo passaggio. Quella fiducia tradita ha sconvolto anche le relazioni interpersonali e nella classe operaia si è riscontrata una perdita d’identità».

Possiamo ancora parlare di classe operaia oggi e che senso assume questa definizione alla luce dell’Italia post-Berlusconi?

«Esiste una classe operaia, non esiste l’operaismo, ma di questo ce ne eravamo già accorti tempo fa, nel bene e nel male. Non esiste più il rapporto tra classe operaia e proprietà, nascosta dal finazialcapitalismo. Mi chiedo come sia possibile che nella società dei consumi ci sia un problema di occupazione».

Quale dovrebbe essere per lei la funzione del cinema oggi e il ruolo dell’intellettuale?

«L’intellettuale come uno stalker con il coraggio di portarci dentro La zona dove non tutto può essere spiegato con il solo raziocinio. Il cinema come espressione di punti di vista su ciò che siamo e che non riusciamo ad esprimere».

È possibile fare cinema indipendente in Italia?

«Direi di no, ma poi se penso ad alcune esperienze credo di sì. Certo serve grande passione e tanto, forse troppo sacrificio».

Lei è originario di Marradi e nei suoi film affronta spesso le dinamiche della provincia, dove le relazioni umane assumono spesso toni esasperati avendo a che fare spesso con mondi ristretti. Cosa ricorda della provincia?

«Ricordo una provincia che ha cercato per anni di omologarsi e da questo nasceva una sorta di frustrazione. Oggi mi sembra che la provincia possa diventare territorio di sperimentazione civica. Una sorta di piccolo prototipo per un’idea di vita migliore ».

Il film è stato presentato proprio in concomitanza della vicenda dell’Ilva di Taranto, crede sia stato importante il contributo della pellicola per poter affrontare il tema del lavoro con maggiore determinazione?

«Spero che qualcosa sul tema e sulla siderurgia italiana che in Acciaio è stato trattato, serva come spunto di riflessione. Credo che il cinema sia utile a questo, ma non sempre ci si riesce».

Pensa che oggi la fabbrica possa essere interpretata ancora alla luce della famosa frase produci consuma crepa?

«No, non credo. Penso che oggi si possa interpretarla con la frase Soltanto non ci hanno ucciso».