Taccuini del Sud

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pollo

racconto boccaccini foto

Good time for a change / See, the luck I’ve had / Would make a good man / Turn bad / So please please please / Let me, let me, let me / Let me get what I want / This time”  (The Smiths, Please please please let me get what I want)

Bologna, venerdì 28 settembre

Sono in ritardo. Quando arrivo alla stazione di Bologna, Valentina è già lì con le due valigie e un temporale in arrivo disegnato in volto. Valentina, la mia ragazza, è una tosta. Ha trovato lavoro a Potenza in netto contrasto con le rotte mercantili del precariato. Tutti vanno a Milano, lei a Potenza. Io l’accompagno. Non ho un cazzo da fare e poi al Sud non ci sono mai stato.

Altri due minuti e sarei partita senza di te, e col cazzo che mi vedevi ancora!”, pronuncia stretta nel cappotto. In casi come questi mi affido alle scuse classiche: “Perdonami, oppure ho trovato un incidente in autostrada”, fino a quando non riesco a lavorarla perbene ai fianchi, in attesa di un bacio che arriva subito dopo averle recitato la scena nella quale John Belushi, nel tunnel di fronte alla donna che ha lasciato all’altare, le dice “Non è stata colpa mia, sono state le cavallette” e si leva gli occhiali, baciandola. In realtà la sera prima ho avuto una cena con i compagni delle scuole medie. Vent’anni sono passati, e anche se questi i remember non fanno per me, sono stato bene, a tal punto da affogarmi dentro a due litri di vino rosso, finendo una serata in bestemmie e abbracci carichi di lacrime etiliche.

Italo, il nuovo treno del magnate Cordero di Montezemolo, arriva in orario, preceduto dall’accoglienza di hostess e steward di bordo, che ci hanno allietato con i loro sorrisi in polietilene e le loro camicie succinte a strizzare addominali e seni. Si viaggia comodi e siccome Valentina, nonostante la scenetta dei Blues Brothers, non mi parla, osservo la fauna.

Direzione Salerno.

Mentre fuori dai vetri rettangolari scivola via l’Italia che cambia, guardo un bambino bellissimo biondo, dagli occhi azzurri, figlio di una madre giovane e molto bella. Un signore distinto con i baffi legge Libero e ad alta voce commenta le dichiarazioni di Bersani, con un altro uomo sulla quarantina, seduto vicino che vorrebbe solo dormire, probabilmente il suo portaborse. Una famiglia, nel posto da quattro, è diretta a Firenze a trovare la nonna materna malandata, ogni tanto qualcuno dei quattro inizia a piangere, subito fermato dal padre, che poi deve abbracciare anche la figlia che inizia a lacrimare quando la madre smette. Il ragazzino di colore con le cuffie si spara roba tipo Wu-tang- Clan, il berrettino da baseball dei Chicago Cubs e la felpa con su scritto – Ya, I’m a motherfucker-, pensando il prototipo di ragazzo che vorrei uscisse con mia figlia, sfoderando tutta la mia ipocrisia Wasp, silenziosamente, senza che nessuno intavoli una discussione aperta sulle possibilità di integrazione nello stivale cattolico, benpensante di stampo giudaico-cristiano. A Santa Maria Novella, scende la famiglia triste, vorrei fermarli, abbracciarli e salutarli, ma non lo faccio. Il dolore è una questione privata.

Mi passi l’acqua?”, Valentina si risveglia e sembra pronta a far la pace, chiedendomi la bottiglietta di Cerelia. Beve, mi guarda e sussurra, “Stronzo”, reclinando la testa verso i prati che scorrono ad una velocità dei 296 km/h, senza soluzione alcuna di slow motion. Apro i Canti pisani di Ezra Pound, e mi addormento.

Al risveglio, Italo è arrivato a Salerno, che assomiglia a Tunisi, o almeno all’idea che ho di quella città, mentre frettolosamente mi scrollo di dosso alcuni sogni composti di catastrofi, brevi scene softcore e il maestro delle elementari che mi insegue chiedendomi la tabellina del sette, l’unica che non ho mai imparato.

Chi vive nel nostro tempo è vittima di nevrosi. Per vivere bene non bisogna essere contemporanei” (Ennio Flaiano, Diario degli errori)

Verso Potenza.

Il capostazione italovestito si avvicina e ci chiede dove dobbiamo andare.

Potenza – rispondiamo – Sinceri auguri – risponde levando il cappello per asciugare il sudore.

Capiamo il perché quando saliamo sulla litorina, fabbricata con tutta probabilità nel sessantanove. Caldo africano, lentamente le palme sorte sui brevi altipiani si intensificano e il treno raggiunge una velocità di crociera dei 90 km/h. Il temporale in arrivo sulla faccia di Valentina, segnalato dal meteo, è ora arrivato. Nubi intense e possibili rovesci, venti da sud, sud-est.

Ora potresti farla finita con questa sceneggiata, ho capito, che sono arrivato tardi, ma non l’ho fatto apposta, l’incidente non lo potevo prevedere, eddai…un bacio ora potresti darmelo”, e faccio per avvicinarmi, mentre lei si smarca rapidamente sul seggiolino in pelle verde militare bicolore. “Vattene ti dico, sei un disgraziato, non so come faccio a stare con uno come te, non ci si può fidare, stattene nel tuo mondo e io sto nel mio, tanto è quello che ti riesce meglio fare è l’alieno”.

Mi faccio una foto con il cellulare per constatare le mutazioni degli occhi, orecchie alla capitano Spook, nella speranza di farla ridere, ottenendo uno scarso esito della mia performance da clown. Gli ultimi passeggeri scendono ad Eboli, anche la ragazza seduta dietro di noi, con le zeppe in vernice e il brillantino nell’incisivo. Rimaniamo soltanto noi e l’autista del treno, mentre ripenso al libro di Levi e capisco molte cose.

Dopo due ore e molte pause in mezzo al nulla, scendiamo lentamente verso Potenza, dove un cielo basso disegna le rocce di ruggine nell’ultimo sole che cade a picco sulla vallata. I balconcini delle case sono adornati di collane di peperoncini rossi, forse un modo per tenere lontana la malasorte, o impedire agli spiriti di entrare.

Alla stazione centrale di Potenza ci attende la signora che ha affittato la casa a Valentina. E’ circondata da un nugolo di ragazzini ghetto-style, curiosi pare del nostro arrivo. Potenza come l’inferno è composta di gironi. Un limbo nel quale le strade sono percorse da piccole auto che si arrampicano veloci regolate da leggi diverse da quelle del codice stradale. La viabilità qui si fonda su di un miracolo.

Tiziana ha gli occhietti verdi e un visino da suora mancata. Ci porta a fare provviste in un centro commerciale sotterraneo, dove mentre riempiamo due carrelli, come dovessimo far fronte ad uno scontro di civiltà imminente, osservo la gente muoversi lenta e scomposta, rapiti tutti in abbracci e rassicurazioni. La casa è piccola ed accogliente. Dentro ci troviamo Lily, la gatta della mamma morta di Tiziana, che non è più voluta andarsene dall’appartamento. In questa lentezza spaesata, Valentina riprende a parlarmi.

Potenza, sabato 29 settembre

Sulla via Pretoria, quella che da queste parti chiamano ”O’ struscio”, leggo su un muro la scritta “Pijate nu’ cazz in bocca” e capisco che l’amore è identico anche qui al sud, mentre sgusciamo tra coppie e saluti. La foto di Ben Gazzara troneggia nell’unico ristorante che troviamo aperto, gestito da Don Vito, un signore simpatico che ci porta orecchiette con pavaroni cruschi e ricotta, carne e buon vino rosso. Ci saluta e, guardandomi: “Ossequi alla sua signora”, gli stringo la mano e non sapendo cosa rispondere, sfuggo con un “anche a lei” striminzito in un sorriso imbarazzato.

Qui si usa ancora dare del “Voi”, e le persone stanno appiccicate in abbracci consumati e formule tardo borboniche. La luna è un medaglione biancastro issato nel cielo astrale, illumina l’edilizia arroccata alle pareti montuose, creando nella notte un rosario di luci. Sottofondo di alcune coppie che passandoci accanto, lasciano parole smozzicate, un dialetto che ascoltiamo divertiti e curiosi. I distributori di benzina affollati da lunghe file di auto. Famiglie intere che fanno il pieno di super, sfruttando il risparmi del self, 1,725 euro al litro. Intere famiglie trascorrono il loro sabato sera così. Qui è tutto un pullulare di piccoli e grandi simbolismi, dove il passato convive con il presente, affrancato da ogni contemporaneità, oltraggiato da una violenza silente che ha collocato questi luoghi a sud di una certa idea di nazione.

Quando mi alzo, Valentina è già scomparsa imbottigliata nel 27 barrato che la porta nell’ufficio di import-export in zona Don Bosco, per il suo primo giorno di lavoro. Mi lascia un bacio su uno scottex e la moka con il caffè già pronto. Lei è una tosta. Non è una da addii. Sappiamo entrambi quello ci attende. Mi ricordo una frase della poesia di Sanguineti: “Se mi stacco da te, mi strappo tutto”. La scrivo in un biglietto che le lascio sul cuscino. Mi dirigo alla stazione nel verde monolitico sotto il cielo lucano che lentamente scomparirà verso Bologna, a sud del nostro amore.