Cronache dal Primavera Sound Festival

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supersound

Il volo che mi porta a Barcellona tocca terra mercoledì sera, quando l’edizione 2014 del Primavera Sound Festival è già cominciata con piccoli concerti inaugurali. Dopo il gelo siberiano dello scorso anno è una leggera pioggia ad accogliermi in terra catalana. La città cela un’atmosfera che scoprirò esplosiva solo la mattina successiva, sfiorando i cortei di protesta contrari alla chiusura del centro sociale Can Vies.

Programma alla mano, seguire il festival sarà ancora più complicato visto che molti eventi sono dislocati in location diverse dal Parc del Forum, centro nevralgico della manifestazione.

I rumors sostengono sia l’edizione più scarica degli ultimi anni nonostante il cartellone vanti veri e propri giganti della musica mondiale. Il dubbio che in tanti abbiano rinunciato a partecipare mi sorge quando percorro la salita che conduce all’ingresso del Forum: non c’è ombra del serpentone umano tipico del primo giorno, quando si deve ritirare il braccialetto di ingresso valido per l’intero week-end.

 arcade fire

Giovedì 29

La prima tappa è all’Auditorium Rockdelux, unico palco indoor del festival, per vedere finalmente dal vero un mito della mia adolescenza: Julian Cope. Di lui ho consumato Fried e Saint Julian quando ancora la musica non si scaricava né skippava e degli album conoscevo anche il numero dei solchi. Non mi aspetto di certo una scaletta nostalgica, so che il Druido si è del tutto trasfigurato, anche nell’aspetto che oggi lo fa somigliare, quando sale sul palco, ad un byker della Route 66 in botta per gli ZZ Top. La prima magia è che riesce a riempire un auditorium enorme e troppo cupo per l’orario pomeridiano, la seconda che la voce è ancora quella di trent’anni fa. Si accompagna solo con una chitarra acustica, essenziale ma efficace. La sua figura provoca timore, nessuno si azzarda a lanciare richieste allora il ghiaccio lo rompe lui stesso dialogando col pubblico e chiedendo la traduzione in spagnolo per i titoli delle canzoni. In scaletta, inattesi, infila due pezzi dei Teardrop Exlpodes, progetto giovanile di Cope nel cuore di tanti presenti e una Sunspots che denuncia qualche piccolo cedimento nella voce ma raddrizza tutti i peli del corpo. Come inizio di festival non c’è male.

Salendo le scale che portano all’uscita dell’auditorium la grande vetrata affacciata sulla Diagonal rivela l’errore di valutazione di un’ora fa: la fila all’ingresso è impressionate e si perde da qualche parte verso il centro della città. Perfetto, entro ora veramente nello sconfinato spazio dei palchi all’aperto e mi dirigo verso il piazzale che ospita i due principali, il Sony e l’Heineken, che quest’anno non sono affiancati ma uno di fronte all’altro e sembrano guardarsi con aria di sfida. Inizialmente la scelta appare azzardata, si rivelerà invece vincente nel corso delle tre serate. Sull’Heineken stage e sotto un sole caraibico ci sono ora i Real Estate che radunano un pubblico da headliner già alle sette di sera. Il loro indie pop da poveri nerd non mi eccita granchè, ma le 50.000 persone lì intorno la pensano diversamente e devo ammettere che la musica morbida e rilassante si sposa perfettamente col clima estivo. Nomen omen. È festival finalmente.

Faccio un po’ il campanilista e raggiungo il Rayban Unplugged dove i C+C=Maxigross hanno qualche problema tecnico nel cominciare i loro venti minuti di gloria. Quando tutto è finalmente settato i veronesi possono sparare in faccia al pubblico il loro folk psichedelico fermo al 1969 nella baia di Santa Monica. Bravi.

Torno all’Heineken per le troppo chiacchierate Warpaint, coloratissime dai capelli ai piedi ma ripetitive e poco originali. Figlie di un dream-pop alla Cocteau Twins fuori tempo massimo, allungano la scaletta con una cover di Ashes to Ashes prescindibile. Il tramonto però gli dona e strappano applausi. Nulla però in confronto a quello che succede dieci minuti dopo sul palco opposto dove sale una St.Vincent che spacca il mondo in quattro: eterea, algida, ma solo nell’aspetto, sembra inizialmente scimmiottare Lady Gaga con un balletto robotico sotto lo spotlight, poi imbraccia la chitarra per un set esplosivo il cui detonatore è l’ottima band elettro-rumorista. Grandiosa. In tanti si fermano sotto il palco dove tra due ore si esibiranno gli Arcade Fire girando così le spalle ai Queen of the Stone Age che sul palco opposto danno corpo al loro hard rock muscolare e patinato davvero senz’anima per quel che mi riguarda.

Mezzora dopo la mezzanotte comincia quello che per molti è il vertice dell’intero festival. È un uomo vestito di specchi ad annunciare dal palco-regia l’inizio del set dei canadesi Arcade Fire che trabocca prima ancora di cominciare: gli elementi sul palco non si contano, mi fermo a quindici e spero di non rimanere schiacciato. Si capisce subito che tutto girerà in maniera impeccabile, non sbagliano una nota, il meccanismo è perfetto ma un po’ freddo, fa eccezione Régine Chassagne che balla, canta e suona con una gioia invidiabile. Sfiorano le due ore di concerto che sul finire diventa un carnevale in gara con Rio de Janeiro, maschere e coriandoli invadono palco e platea. Ballano tutti ed è comunque un merito. Da qui in poi, sono le due, è l’elettronica ad accompagnare la notte, sfioro Moderat e Metronomy, ma ci sono davanti altri tre giorni, meglio far economia di energie.

pixies
Pixies

Venerdì 30

Il venerdì è per me la giornata meno affascinante, alle sette del pomeriggio sono però programmati i Wedding Present al fantomatico Hidden Stage, decido allora la corsa per non perderli. Le piccole gocce al quartiere Born si rivelano però un nubifragio quando esco dalla stazione metro davanti al Forum. Ormai sono lì, compro un ombrello al volo e mi dirigo verso il palco per scoprire che si tratta di una venue su prenotazione e non c’è verso di convincere le hostess, comunque gentilissime, a chiudere un occhio. Mi sono lavato per niente. Il temporale finisce quando i Loop al vicino Atp stage attaccano i jack e il loro space-rock spazza via nuvole e pioggia lasciando il ruolo di protagonista ad un emozionante doppio arcobaleno sul mare che diventa la foto più condivisa e taggata dell’intero week-end. In tanti si accalcano nella food-area per rifocillarsi ma anche per vani tentativi di asciugarsi gli abiti. Arriva poi il momento della reunion degli Slowdive, attesissimi, ma il loro shoegaze vira presto dall’etereo al soporifero. Resisto pochi minuti, meglio anticipare la migrazione verso i Pixies, gli headliner della serata che in tanti però considerano un gruppo ormai bollito. In effetti ci mettono un po’ a carburare, subiscono ovviamente la mancanza di Kim Deal, Frank Black è giù di voce e soffrono anche una scelta di luci penalizzante, ma sono un juke box da party e le quasi 100.000 persone presenti li acclamano e impazziscono ad ogni pezzo di una scaletta che non dimentica nessuna hit. Chiusura scontata ma comunque da lacrima con Where is my Mind?, e qui ho paura, o spero, che gli enormi palazzi commerciali affacciati sul Forum siano stani minati da un novello Tyler Durden. Spenti gli amplificatori i quattro di Boston rimangono a lungo sul palco ad inchinarsi e a godersi l’applauso, la gente ha gli occhi lucidi. Qualche italiano non perde il vizio e chiede un telefono con connessione per sapere se l’Empoli è stato promosso in serie A, ma va bene lo stesso. Dopo un tale show e sette ore con i piedi fradici non è certo il blando post-punk revival dei National a tenermi ancora lì.

Seun Kuti
Seun Kuti

Sabato 31

È il giorno del pienone in cui arrivano al Forum appassionati e semplici curiosi da tutta la Catalogna. I bagni chimici diventano sempre più condivisi tra uomini e donne, il suolo diventa una distesa unica di bicchieri vuoti in cui si affonda fino alle caviglie. Arriva la notizia della cancellazione del live di The Pizza Underground, l’assurdo progetto di Macaulay Culkin, e la delusione è diffusa a giudicare anche dalle tantissime magliette in tema che sfilano al Forum. I Buzzcocks suonano all’Hidden Stage a numero chiuso e le prenotazioni sono volatilizzate in pochi minuti. Poco male perchè per me è soprattutto il giorno dei Television che per l’occasione fanno un set tutto dedicato a Marquee Moon, il loro capolavoro irripetuto. Quando salgono sul palco Sony il sole è quasi a picco, e stride solo inizialmente con l’immagine sotterranea di Tom Verlaine e soci. Parte See no Evil e siamo a New York nel ’77. La voce è sguaiata come su disco, le trame di chitarre inconfondibili, i problemi tecnici fanno molto concerto al Cbgb’s, tanto che Verlaine sparisce dal palco verso il fonico per regolare qualche spia. Si riparte e la scaletta rispetta l’originale del disco a parte per Marquee Moon spostata ovviamente in chiusura e allungata fino a durare quindici minuti. Missione compiuta. Da qui in poi posso godermi il festival senza più correre. Divento turista e visito il Vice, il palco più piccolo ormeggiato tra barche e yacht. Quando arrivo stanno suonando i newyorkesi Hospitality, interpreti di un indie-pop da cameretta aggraziato dalla voce di Amber Papini. Non scolpiranno il loro nome nella storia del rock ma regalano un’ora deliziosa al tramonto. Passo poi dal palco Rayban, l’unico ad anfiteatro ed anche per questo il più amato. Vengo rapito dall’afrobeat di Sean Kuti e i suoi Egypt ’80, già band del suo leggendario padre Fela. Non c’è gara, il ritmo è dell’Africa e tutti gli altri possono solo stare a ballare. Forse è anche colpa loro se, dopo essermi goduto i loro sorrisi, provo repulsione per l’industrial muscolosa dei Nine Inch Nails e noia per il post-rock dei Mogwai. Ci vuole qualcuno che mi salvi la fine del festival, di quel qualcuno so già il nome: Ty Segall. Il folletto di San Francisco sale sul palco Pitchfork con l’inseparabile Fender Mustang. È l’antidivo del festival, sta ai margini del palco e lascia il proscenio al suo gruppo. Sembra un bambino con in mano il miglior giocattolo del mondo: in un secondo netto fa esplodere la platea, si fa talmente voler bene che il pubblico lo reclama a sé, vuole il contatto fisico, abbracciarlo, forse baciarlo. Ty non si fa pregare e si tuffa, sempre abbracciando la chitarra, sempre suonandola. Sparisce da qualche parte in un gorgo di braccia e poi ricompare sul palco per smontare la strumentazione a fine concerto, come l’ultimo dei tecnici di palco. Meraviglioso, miglior act del week-end e, per favore, tutti a lezione da lui. I poveri Black Lips che salgono pochi minuti dopo sulle stesse tavole perdono inevitabilmente il confronto.

Dum Dum Girls
Dum Dum Girls

Encore: domenica 1 giugno

Oggi si visita la città e la prima meta è il parco della cittadella, polmone verde di Barcellona. È domenica e i bambini qui trovano il loro paese dei balocchi: maschere, giocolieri e clown animano ogni angolo del parco. Ce n’è anche per i grandi però: sul piccolo palco sponsorizzato Martini stanno per esibirsi le Dum Dum Girls, female-band dal molto hype e dalla sostanza discutibile. Il clima è idilliaco, la gente stende teli da mare praticamente sul palco, il sole picchia ma le californiane non rinunciano al look total black, inevitabilmente. Da qui in poi è tutta decompressione fino all’appuntamento serale con la Sala Apolo per i fuochi d’artificio finali. Il locale è, finalmente, un vero e proprio live club ed infatti i Cloud Nothing, un po’ a disagio il giorno prima all’aperto, trovano la loro dimensione sfoderando un garage-surf forsennato e apprezzato dal pubblico che azzarda anche qualche stage-diving. Niente però rispetto a ciò che accade quando Ty Segall, ancora lui, mescolato al pubblico fino a pochi minuti prima, sale con la sua band sul piccolo palco del club. Ha deciso che dev’essere la fine del mondo e la platea lo asseconda in un pogo estremo, lui scompare di nuovo in mezzo alla calca e il pubblico conquista palco e strumenti. Non c’è più un ruolo definito ma anarchia pura e gioiosa. Al bar si ordina birra dando di gomito a Sean Kuti, Mikal Cronin ed Emily Rose Epstein. Sta per finire anche questa edizione del festival e se doveva essere tra le più scariche stento ad immaginarmi la prossima. Al 2015 allora!