The Blackhat di Michael Mann

BlackhatNon mi ricordo se già in qualche post precedente ho scritto che penso che William Gibson sia uno dei padri putativi della contemporaneità, intesa proprio come “vita contemporanea”, e anche se non lo fosse e qualcuno avesse da eccepire, bene è uno dei miei scrittori preferiti. In Neuromante, libro che ha superato quest’anno i trent’anni di vita (è del 1984), si teorizzavano quasi tutte le novità con cui abbiamo a che fare quotidianamente. E oltretutto è uno scrittore, Gibson, che ha ispirato una valanga di film, più o meno direttamente. E questi film, quasi tutti, hanno un clamoroso difetto di fabbrica, una specie di smagliatura visiva che li rende prevedibili e immediatamente riconoscibili (e non deve essere considerato un bene): fanno del cyberpunk un luogo tutto simile a se stesso, sporco, pieno di gente invelenita, fangoso, polveroso, con persone piene di aggeggi meccanici impiantati addosso e con i cattivi che vivono circondati da una demenziale corte dei miracoli in cui c’è sempre uno con i capelli rasta, uno con i capelli a cespuglio tenuti fermi da un paio di occhiali da saldatore e uno a cui hanno amputato qualcosa. Ah, e tutti hanno i denti marci. A rileggere i libri di Gibson, papà del cyberpunk e di buona parte delle invenzioni tecnologiche con cui ci confrontiamo, tutto questo lerciume non si nota. Anzi, paradossalmente, la gente con cui i protagonisti dei suoi libri si confrontano sono persone mediamente ricche, circondate da mezzi all’avanguardia e che ragionano su procedimenti di marketing e coinvolgimento emotivo di grandissimo livello. E si, questo succede sia nel ciclo di Bigend sia in quello dello Sprawl (luogo noto a chi ascolta i Sonic Youth).

Tutto ‘sto pippone per arrivare a The Blackhat, l’ultima fatica di Michael Mann (forse definitiva, visti i risultati al botteghino e all’incomprensibile brutalità con cui è stato accolto dai siti più autorevoli di cinema…e questo la dice lunga sulla qualità di certe prese di posizione). Perché a pensarci bene questo film è la più precisa, e vicina, definizione di film cyberpunk che si possa immaginare allo stato attuale delle cose. E quindi della nostra contemporaneità. E non è tanto la trama, sebbene sia maledettamente intrigante, spionistica e cibernetica, ma sono proprio la qualità dell’immagine e del ritmo che fanno la differenza. Tutto quello che gli è stato osservato come contrarietà (eh si, trama figa ma lenta e melmosa nello sviluppo) non è altro che il carattere principale del genere a cui fa riferimento: nel cyberpunk le cose non si svolgono come nei tre Matrix, dove a tratti si sviluppavano coreografie di botte da far impallidire contemporaneamente Stallone, Schwarzenegger, Bud Spencer, Terence Hill e Tsui Hark. Nel cyberpunk si procede per stupore immaginifico, per raccordi digitali, per 1 e 0 che si rincorrono nella rete cercando le giuste alchimie fisiche da raggiungere. Il cowboy Case di Neuromante è il fenomenale Nick Hathaway interpretato da Chris Hemsworth, Kassar ricorda il colossale, e ambiguo, Bigend, la bellissima Chen Lien è una fra le tantissime, indimenticabili, protagoniste dei libri di Gibson. Ma non è solo questo. La pasta dell’immagine, la fotografia, le inquadrature “nel cuore della motherboard”, con i dati che illuminano un percorso articolato quante sono le matrici da percorrere, le tastiere riprese dall’interno. Michael Mann costringe lo spettatore a confrontarsi con il proprio io meccanico, con la propria identità digitale, con il proprio essere cybernativo. Una visione tanto sconcertante quanto infinitamente accogliente. The Blackhat è un abbraccio velenoso, un colpo di fucile al sistema, la rappresentazione definitiva dell’universo cyberpunk. Che è il nostro presente.

Difficilmente altri seguiranno questa strada, il sentiero è segnato ma resterà imbattuto. E questo, per gli spettatori, è una sconfitta.