Uscito ieri il remake del cult-movie Poltergeist

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locandina originale
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Se la Hollywood contemporanea sembra versare, nel suo complesso, in un preoccupante esaurimento di idee e prospettive, alcuni generi si direbbero comunque in condizioni molto peggiori di altri. Registrata, da anni, la grave e forse irrecuperabile malattia della commedia romantica (tanto per fare un esempio), appaiono oggi evidenti anche i gravi sintomi manifestati dal cinema horror, un tempo territorio privilegiato, ribelle e sperimentale di aspre rivendicazioni politiche, o espressione caustica di angosce sociali in anticipo sull’attualità, e ai giorni nostri altresì diventato un contenitore ormai indigeribile di intuizioni riciclate, riletture di seconda mano, eccessi gratuiti e spesso moralisti, mestieranti in declino, preoccupante miseria teorica nemmeno redenta da uno straccio di fantasia borsaiola. Da un lato, comprendere le ragioni alla base dell’ennesimo remake, nello specifico il rifacimento di Poltergeist – Demoniache Presenze (Poltergeist), un piccolo caposaldo del genere nel 1982 sceneggiato da Steven Spielberg e diretto dal texano Tobe Hooper, non è poi così complicato: si tratta pur sempre di un prodotto ricavato da un piano economico di relativa modestia (circa 30 milioni di dollari di finanziamento contro i 70 e rotti guadagnati in tutto il mondo) e quindi facilmente in grado di incassare più del doppio del proprio costo anche in assenza di una distribuzione capillare (senza peraltro dimenticare il perdurante successo dei film dell’orrore in genere presso il mercato dell’home-video, ancorché declinante, e quello invece in piena espansione dello streaming legale). Più difficile è semmai capire come sia stato possibile radunare, per il Poltergeist del 2015, nelle sale italiane dal 2 luglio (anche in inutile e artificioso 3D), una simile accozzaglia di attori fuori parte, registi fuori posto, sceneggiatori svogliati e rimasticature anemiche del prototipo. Dove l’horror degli anni ’70 e ’80 era capace di dare voci, corpi, sangue, sospiri e violenze, anche psicologiche, a un intero arsenale di inquietudini generazionali, non di rado preavvisate con stupefacente sicurezza predittiva (basti pensare alla maniera in cui film d’autore, come L’Ululato [The Howling, 1981] di Joe Dante, o film di serie B, come Il Giorno Di San Valentino [My Bloody Valentine, 1981] di George Mihalka o il primo Venerdì 13 [Friday The 13th, 1980] di Sean S. Cunningham, fossero soliti incrinare e scomporre la falsa sicurezza economica dell’imminente decennio reaganiano), l’horror odierno non sa più rischiare, non sa innovare, non sa incalzare né turbare. Per confezionare il nuovo Poltergeist ci sono voluti il regista Gil Kenan (suoi il discreto Monster House [2006] e il molto meno riuscito Ember – Il Mistero Della Città Di Luce [City Of Ember, 2008]), non solo del tutto inopportuno bensì anche stavolta convinto di girare un cartone animato (gli esterni della casa posseduta e le riprese del suo tentacolare albero rimandano più alla Transilvania di Genndy Tartakovsky che agli incubi domestici dell’originale), uno sceneggiatore premio Pulitzer (David Lindsay-Abaire, prestigioso per curriculum ma qui incapace di andare oltre l’inserimento di televisori a schermo piatto, tablet, MacBook, cellulari e carte di credito rateale, come se bastassero questi dettagli per dire qualcosa di significativo sulla crisi della classe media americana e sulle nuove povertà in arrivo), interpreti di rara cagneria (nessuna chimica tra gli adulti Sam Rockwell e Rosemarie DeWitt, mentre i bambini sono forse i più odiosi e catalettici campioni d’inespressività visti su grande schermo da parecchie stagioni a questa parte), situazioni telefonate e un’atmosfera di generale approssimazione da restarci di stucco. Il primo Poltergeist beneficiava dell’intreccio tra la sensibilità fantastica e progressista di Spielberg (anche produttore) e la furia registica di Hooper, allora reduce da alcuni dei film più disturbanti della storia del cinema (proverbiale l’esordio Non Aprite Quella Porta [The Texas Chainsaw Massacre, 1974], ma anche il sottovalutato Quel Motel Vicino Alla Palude [Eaten Alive, 1977] e il televisivo Le Notti Di Salem [Salem’s Lot, 1979], da Stephen King); ora, purtroppo, il massimo della stravaganza è costituito dalla sostituzione della celebre «sequenza del lavandino», dove Craig T. Nelson iniziava a spellarsi il volto in preda alle allucinazioni, con un flusso di sangue dagli occhi di Rockwell e un esercito di vermi intenti a solcargli il viso, o dall’avvicendamento tra Tangina Barrons, la sensitiva di bassa statura nel capostipite incarnata da Zelda Rubinstein, e Carrigan Burke, “spiritista” da reality (impersonato dal britannico Jared Harris) col dono di saper ripulire le abitazioni dalla loro aura demoniaca. Il risultato, quindi, è di un’evanescenza che lascia perplessi e avviliti: vi manca tutto e, nonostante la solita scenetta «nascosta» dietro i titoli di coda, mancano le sorprese e soprattutto il cinema.

 

Gianfranco Callieri

POLTERGEIST

Gil Kenan

USA/Canada – 2015 – 93’

voto: *