Il taccuino del critico: Maria Pilar Pérez Aspa, che sorpresa!

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È arrivata l’estate.

Desidero sperimentare, per una parte dei lavori che vedrò nei prossimi mesi, una modalità di restituzione che funziona così: durante gli spettacoli prendo alcuni appunti sul mio taccuino. Inevitabilmente (anzi: intenzionalmente) frammentari.

A seguire li ricopio qui.

Nessun approfondimento.

Alcuni lampi.

So già che qualche artista vanitoso si offenderà «perché la sua ricerca richiederebbe ben altra attenzione» rispetto a queste poche righe.

Pazienza.

Mi consolo in anticipo con Ennio Flaiano: «Il segreto è raggiungere da professionisti la disinvoltura dei dilettanti, non prevalere, far credere che la cosa sia estremamente facile, un divertimento che trova la sua ragione di esistere nel fatto di essere più leggero dell’aria».

Buona lettura.

L’età proibita. Appunti biografici di Marguerite Duras

Il bello dei Festival: che arrivano sorprese.

Centro storico di Sansepolcro.

Auditorium Santa Chiara.

A pochissimi metri da qui, nella Chiesa di San Lorenzo, il Compianto sul Cristo deposto del Rosso Fiorentino, 1528. Mica pizza e fichi.

Comunque.

Caldo caldissimo, qui.

Gran sventolamento di ventagli e cartoline con il programma, nell’attesa.

Elisa, seduta alla mia sinistra, va a finire che sviene.

Si comincia.

Buio.

«Autoritratto…Io non capisco cosa vuole dire. No, non capisco. Come volete che io mi descriva. Un ritratto su di me…gli altri potrebbero farlo. Tanti che conosco potrebbero fare un ritratto valido. Io non ho niente da dire su di me».

Subito rimbalza l’incipit de Il giovane Holden di J.D. Salinger: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne».

Una bella capriola, per cominciare.

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Una donna con impermeabile beige, occhiali dalla montatura spessa e capelli a crocchio è seduta su un divano. Racconta furiosa e calmissima, tagliente e accogliente.

Seconda capriola.

Quella voce. Ha dentro legno scuro e nuvole, anni e attimi, Spagna e Francia e Italia.

Terza capriola.

Durata delle pause esattissima: né troppo né troppo poco. Sono quasi tutte in levare. Una giocoliera dei silenzi, penso.

Le parole arrivano solide, come fiori e sassi lanciati dal palco a noi in prima fila. Come lame e miele. «Il piacere di ricevere il testo», si potrebbe dire parafrasando Roland Barthes.

«Cosa vuol dire chi sono io? Chi siete voi. Eh? Chi sei tu? …eh? Chi sei tu che mi guardi?». Se pensavo di star qui come si sta allo zoo me lo posso scordare. 

Ci consegna un racconto senza ammorbarci con i cliché vocali delle attrici: silenziosamente e profondamente ringrazio.

Un abile falegname al lavoro. Esattezza e concretezza, esperienza e visione. 

«Sono una che non è mai puntuale ai pasti, agli appuntamenti, al cinema, a teatro, anche gli aerei li prendo per un pelo, sempre». Racconta della casa, dello scrivere, del bere.

E bere.

E bere ancora.

Con esatta maestria, con apparente semplicità non ci molla un attimo.

Micro-variazioni del corpo-voce e cambia tutto. Spostamenti millimetrici che scompaginano. Come accade nella vita, anche se ce ne scordiamo. Altre capriole.

Precisione e tecnica, e cioè un serio, artigianale, rispettoso e rispettabile lavoro d’attore: merce rara, di cui si sente ogni giorno di più la mancanza. 

«Facevo le cose a metà, per averle fatte, e non funzionava. Alla fine dell’estate mi sono sempre ritrovata come una stupida che non capisce quello che è successo ma capisce che è troppo tardi per viverlo. Ed è di questo che scrivo, di ciò che non ho vissuto. Ciò che mi è successo ma che non ho vissuto».

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La biografia della Duras emerge per fiotti, lampi, frammenti appuntiti, in mezzo a materassi, teli verdi e bottiglie. La relazione con Yann Andréa Steiner, l’ospedale, il vino, la morte. Il Compianto nella Chiesa a fianco rivive qui. Umanissima pietas, umanissimo amore.

E la cucina, in mezzo: «Io a Neauphle, per esempio, in campagna, mi mettevo a cucinare nel primo pomeriggio. Succedeva quando gli altri non erano in casa, quando erano al lavoro o dormivano nelle camere. Allora avevo il pian terreno della casa e il parco tutti per me. Quelli erano i momenti della mia vita in cui sentivo chiaramente che li amavo e che volevo il loro bene. Il tipo di silenzio che si lasciavano alle spalle quando se ne andavano lo ricordo bene. Lentamente, con cura, perché durasse di più, in quei pomeriggi cucinavo per quelle persone assenti. Facevo una minestra perché la trovassero pronta nel caso avessero molta fame. Se non c’era una minestra pronta non c’era niente. Se non c’era pronto qualcosa, voleva dire che non c’era niente, che non c’era nessuno».

Alternanza di narrazione e passaggi coreografati. Vera e propria «scrittura ad alta voce», si potrebbe dire per stare ancora un po’ con Barthes.

Sul finale arriva anche Jeanne Moreau a farci compagnia.

L’attrice toglie il telo che copre il divano: in realtà è una barchetta, in cui lei si accuccia.

Toglie il telo e spunta una barca: altra capriola, concretissimo satori, coup de théâtre.

Pausa in levare.

Buio.

Ha sintetizzato perfettamente Diego Vincenti su Hystrio: «Incredibilmente intensa e precisa Maria Pilar Pérez Aspa, la cui cura dei dettagli è nascosta sotto una cipria di naturalezza. Si tira le calze, si sofferma su una sillaba, un balbettio in francese prima di sistemarsi gli occhiali: la Duras è sul palco».

In L’età proibita c’è in abbondanza quello che in teoria dovrebbe esserci sempre, quando si va a teatro: il teatro.

Dire grazie, almeno.

MICHELE PASCARELLA

 

Visto il 25 luglio 2015 a Kilowatt Festival – Sansepolcro (AR) – info: kilowattfestival.it