Se hai fatto uno dei dischi più importanti usciti negli ultimi mesi, è chiaro che anche l’attesa di vederti dal vivo è molto alta: PJ Harvey lo sa bene, lei che è l’antitesi degli artisti dozzinali che riempiono etere e fibre ottiche del giorno d’oggi. E vederla al prestigioso Festival Jazz di Montreux e per di più in in double bill con Patti Smith, è l’occasione giusta per testare The Hope Six Demolition Project: opera di un’artista capace di crescere, di lasciarsi alle spalle l’immagine alternative in cui molti la vorrebbero ancora ingabbiata e di reinventarsi folksinger sui generis, diremmo quasi concept folksinger – già, perché l’intento del lavoro messo in piedi con il fotoreporter Seamus Murphy, quello di creare una specie di work in progress che documentasse il violento disagio, lo squilibrio sociale e il crimine in posti “caldi” come le periferie di Washington D.C., il Kosovo o l’Afghanistan, sembra davvero porla accanto a quanto facevano Nina Simone oppure Joan Baez con le rispettive musiche: cercare ispirazione nella difficoltà della vita reale, rischiando e mantenendosi pericolosamente sul filo.
In The Hope Six Demolition Project, disco e tour, bisogna segnalare anche un pezzo della miglior musica italiana contemporanea: immaginiamo che sia stato John Parish, praticamente da sempre uomo ombra di PJ, a coinvolgere Alessandro Asso Stefana (Guano Padano, Vinicio Capossela) ed Enrico Gabrielli (Mariposa, Calibro 35), i quali con Mick Harvey (Bad Seeds, Crime & The City Solution) e con i due Gallon Drunk Terry Edwards e James Johnston formano l’ossatura di tutto il progetto. Il risultato è davvero un assalto frontale che investe, picchia duro ma è anche molto sofisticato nei particolari – e, non importa cosa abbiate pensato di Polly Jane finora, spiega come qui il pensiero sia senza compromessi offrendo uno punto di vista radicale nell’epoca dell’insipida uniformità prefabbricata, la nostra.
L’album è proposto interamente nei propri undici brani, com’è giusto che sia: niente di calligrafico, peraltro, tutto smontato e rimontato come dev’essere nell’esperienza on stage. L’attacco è subito assoluto: tamburi battenti e tocca a Chain Of Keys ossia puro Captain Beefheart con tono guerresco fra coro di voci e tappeto di sax velenoso, mentre The Ministry Of Defence è scandita e pulsante. L’Auditorium Stravinski è già tutto ai piedi di PJ, fra attenzione e adorazione. The Community Of Hope non fa altro che aumentare la temperatura con quel passo contagioso e vagamente accessibile, A Line In The Sand e The Orange Monkey sono perfette con quelle ritmiche convulse che le saldano, Medicinals è ancora nel nome del Capitano, The Ministry Of Social Affairs si nasconde nel blues, Dollar, Dollar allenta i toni ma non il pathos per un po’ di atmosfera smussata. The Wheel ci mette poco a tornare ai chiodi di cui è tappezzato tutto il concerto – performance che ha il massimo trionfo con il capolavoro del disco, River Anacostia: la Harvey ha il colpo di genio di rivisitare il gospel Wade In The Water, classico del repertorio Staple Singers/Mavis Staples (non si contano quanti se ne siano impossessati: Judy Henske, Bob Dylan, Graham Bond Organization, Odetta, Ramsey Lewis, Dr. John, Robert Plant, Chambers Brothers, Harvey Mandel, Patty Griffin e mille altri), è rifarne una pazzesca versione imbullonata fra le periferie tutte o crack o basket della capitale Yankee, appunto attraversata dal fiume Anacostia. Un finale di quelli che davvero lasciano un’eco assordante a chi ha la fortuna di assistere alla presente messa cantata starring Polly Jean Harvey, Principessa del Dorset – Principessa che, dopo un gran vociare del pubblico, torna con la sua band da sogno a regalare Near The Memorials To Vietnam And Lincoln, crepuscolare folk guidato dalla fisarmonica di John Parish.
Come giusto che sia, The Hope Six Demolition Project è stato intervallato da qualche scheggia del passato, iniziando da tre numeri di Let England Shake (2011), che del nuovo lavoro è il chiaro progenitore, musicalmente e tematicamente: la title track, The Glorious Land e soprattutto il nervoso swing The Words That Maketh Murder. La sorpresa arriva con When Under Ether, sussurrato gioiello di White Chalk (2007): due minuti o poco più di musica minimale che lascia il fiato sospeso. Prima che giunga l’epilogo definitivo, la coda è una scarica elettrica di quando PJ era la new thing degli anni Novanta: 50ft Queenie arriva da Rid Of Me (1993) ed è letale più di quanto la ricordassimo, mentre da To Bring You My Love (1994) volano a vele spiegate la sempre sinistra Down By The Water e il blues spastico fra Nick Cave, Jeffrey Lee Pierce e Hugo Race del pezzo guida dove abbondano gemiti, urla scomposte e singhiozzi.
CICO CASARTELLI