Costruire atmosfere, più che immagini. Intervista al light designer Simone Fini

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Come e quando ti sei avvicinato a questo mestiere?

Quando mi trasferii a Milano per la prima volta avevo ventiquattro anni. Fino a quel momento avevo svolto attività molto diverse fra loro, tra cui un breve tentativo con la fotografia, subito abbandonato peraltro.

In un percorso comune a molti, passavo frequentemente da un lavoro a un altro, sia per necessità pratiche, che alla ricerca di un ambiente che mi accogliesse.

Uno di questi lavori incontrati, mi portò a fare il facchinaggio per un service luci (tutt’oggi esistente), dove gli addetti si prestavano alle mansioni di aiuto al montaggio e allo smontaggio degli allestimenti. Stabilii presto un legame con i tecnici incontrati, i quali mi insegnarono molto e ai quali, per parafrasare un’espressione napoletana, cercavo di “rubare il mestiere”, la loro maestria, mi sentivo a bottega.

Ma lavorare in teatro era ciò che mi interessava, ero magnetizzato da questo luogo, la sua funzione e il mondo che lo popolava, ne volevo far parte.

Così non perdevo occasione per intercettare le possibilità di avvicinarmi a questo ambiente e ai suoi autori. Ho lavorato in numerosi Festival, ho avuto i miei incontri, fino a che non sono arrivate le prime chiamate da parte dei registi. L’applicazione, l’osservazione anche involontaria e una buona dose di studio e di pratica, poi hanno fatto il resto.

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Qual è il rapporto fra arte e artigianato, nella tua pratica?

Non riesco a stabilire un rapporto tra le due cose. Anzi non saprei neppure ben dire se si tratti della stessa cosa. In fondo queste parole si compenetrano essendo l’una contenuta nell’etimo dell’altra. Probabilmente l’obiettivo è quello di determinare un certo approccio.

Il mio percorso, che condivido con tanti altri, è quello del fare per imparare.

Non possiedo una formazione accademica per l’attività che svolgo, semmai ne possiedo una derivante dal rapporto con la “pratica” ereditata dalla mia educazione familiare e da tutta una serie di conoscenze e accadimenti che si sono succeduti nel tempo.

A questo proposito posso dire di aver coltivato un forte gusto per il materico, e un’attitudine decisamente manuale nei confronti della realizzazione. Cosa che poi ha portato a dedicarmi anche alla costruzione, alla scenotecnica prima e alla scenografia poi.

Se in aggiunta vogliamo considerare il fatto che la mia attività è incentrata sulla creazione e produzione di beni non seriali, da più parti connotati effimeri, realizzati all’interno di piccole comunità dedite allo sviluppo e materializzazione di un’idea, un’intenzione, spesso attraverso l’adattamento ai mezzi a loro disposizione, nonché “in presenza” e tramite le proprie abilità individuali ancorché partecipate, ecco che non posso essere che un artigiano.

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Vivi e lavori tra Marsiglia e la Toscana.

Devo precisare che il mio trasferimento non è stato fatto per motivi professionali e che Marsiglia non sia l’unica città dove ho abitato in Francia, benché vi sia ancora domiciliato, come del resto la Francia non l’unico paese dove sia stato residente.

Detto questo, prendo comunque spunto dalla domanda per tradirla.

Ho sempre nutrito una certa diffidenza nei confronti dell’internazionalismo troppo esibito. Bisogna prendere atto che la sola cosa da cui deriva questo sentimento diffuso è soltanto una maggiore possibilità e capacità di spostarsi soprattutto all’interno dell’Europa, sebbene non sia affatto poca cosa.

Ho potuto apprendere, sia a mie spese che a mio beneficio, che esperienze di vita privata e professionale al di là dei propri confini d’origine, prima di essere una possibilità di rapporto con differenti sistemi, tecniche, approcci, o ancora burocrazie e amministrazioni, rappresentano una possibilità di confronto fra identità.

Simili esperienze, ancor prima di mettere in relazione con identità altre, provocano una introspezione verso la propria. Si è obbligati a riconoscersi.

Così come si è condotti ad osservare il rapporto che gli altri stabiliscono con il nostro retroterra culturale.

Sentirsi caratterizzati per la nazionalità di provenienza è un fatto insolito. Abitando in Italia, quella di essere italiano non è una gran peculiarità, non definisce né determina granché, essendo attributo comune ai più.

Altrove, al netto dei luoghi comuni, può riservare sorprese inaspettate.

Il reciproco riconoscimento di identità differenti e con esse di un diverso bagaglio culturale e di “mestiere” è una fonte di grande ricchezza.

È mia esperienza che ci possano essere riconosciute, talvolta senza neanche troppi meriti personali, delle qualità che sono riconducibili a una particolare capacità di fare e a delle prerogative nella creazione.

È francamente affascinante essere spettatore di uno spettacolo di Emma Dante (per fare un esempio) al di fuori del territorio nazionale, dove una sovratitolazione, onestamente insufficiente, di un argot di dialetti meridionali, non ostacolava né tanto meno penalizzava un sincero apprezzamento da parte del pubblico.

Io stesso, ben al di sotto delle parti, sono stato protagonista non senza imbarazzo, di una sorta quasi di omaggio da parte di un responsabile di un teatro nazionale, che mi riconosceva, a priori, la provenienza da una scuola per cui lui nutriva una dichiarata ammirazione, quella italiana.

Mi attardo su questo aspetto, proprio nel momento in cui assistiamo alla corsa impazzita del carro della globalizzazione, che ci desidera spettatori, autori e cittadini omologhi, in nome di quella democratizzazione dei processi creativi prima e della visione poi tanto cara agli interessi economici e che non può passare che attraverso una perdita della propria identità culturale d’origine.

Quando la più becera propaganda, oramai assimilata dalla maggioranza degli individui, porta ad affermare il concetto che l’erba del vicino sia sempre più verde e quando si può osservare che non sia del tutto sopita la tendenza di molti autori di qualsiasi provenienza nel darsi un tono di esterofilia, questo vestire i panni dell’uomo di mondo ricorda molto Totò nella sua tragica comicità.

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Per molti anni sei stato al fianco di Claudio Morganti, da molti considerato un Maestro del teatro italiano. Puoi nominare cosa quella esperienza ti ha insegnato?

Claudio Morganti è una persona che mi è molto cara, per cui provo un certo pudore nel parlarne. Penso gli farei un torto, e sicuramente lo farei alla nostra conoscenza, se rispondessi in termini di professione a questa domanda.

Certo è che ha avuto una grande influenza sulla mia percezione del teatro e credo di dovergli qualcosa per la persona che sono diventato, ben oltre quello che faccio.

Gli debbo molto più per la conoscenza del limite che non per quella delle possibilità.

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Hai progettato e realizzato le luci di And it burns, burns, burns, episodio conclusivo di un progetto biennale che la Compagnia Simona Bertozzi/Nexus ha dedicato al mito di Prometeo e alla sua trasposizione nella contemporaneità. In che modo il tema dello spettacolo ha influenzato il tuo fare?

In nessuno. Certo è che il soggetto era molto attraente e quanto meno adatto per un collegamento. Prometeo ruba il fuoco all’Olimpo per donarlo agli uomini e con esso la luce della technè.

In questo frangente sono state prevalenti le intenzioni, condivise fina da subito, di Simona (Bertozzi), che coincidevano con un allontanamento pressoché totale dalla didascalia in primo luogo e poi, in fase di lavorazione, anche dal segno, inteso sia come elemento simbolico che come “scontornamento” dei danzatori, dei movimenti e delle scene. Ovvero tutte quelle situazioni dove vi è una luce dedicata per una determinata azione in un determinato luogo.

Il risultato è stata una composizione che definirei naturalistica. Un lavoro che, al di là della presenza di una certa effettistica funzionale è stato realizzato sulla variazione delle intensità luminose e delle temperature colore.

Si assiste così a una progressiva e costante variazione di atmosfere durante tutta la lunghezza della performance, che si miscelano in maniera molto morbida e con tempi piuttosto dilatati, producendo una condizione prevalente di sospensione.

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In una tua scheda di presentazione si legge: «Proust nel Jean Santeuil scriveva che Monet voleva “dipingere non quel che si vede (…) e nemmeno quel che non si vede (…), ma dipingere che non si vede”». Questa citazione può riassumere la tua poetica? Per i non addetti ai lavori: cosa significa, nella concretezza del tuo lavoro?

Effettivamente è la frase conclusiva di un testo piuttosto corposo, dove ho tentato di confrontarmi con quello che faccio, tutt’oggi suscettibile di una ulteriore evoluzione.

Essa è estratta da un contesto leggermente più ampio di grande potenza visiva e di sublime raffinatezza poetica.

L’immagine letteraria rimanda a uno sguardo (noi sappiamo quello di Monet) rivolto verso le nebbie che avvolgono il corso di un fiume all’alba e che di fatto gli impediscono di vedere.

Claude Monet, dipingerà comunque quel quadro, si chiama Bras de Seine près de Giverny.

È assai probabile che il pittore abbia atteso il diradarsi delle nebbie prima di mettersi al lavoro, ma l’ammirabile analisi di Proust ci conduce ad immaginare che quanto raffigurato sulla tela sia da ricercare in quel primo sguardo cieco, in altre parole ciò che il pittore ha percepito ancor prima di aver visto.

Non saprei dire se questo rappresenti, né tantomeno riassuma la mia poetica, credo a tal proposito sia opportuno lasciare ad altri tale incombenza, ma sicuramente rispecchia una mia intenzione.

Le componenti della percezione le trovo più interessanti rispetto a quelle date dalle potenzialità fotogeniche di una composizione.

In pratica, come dicevo anche poc’anzi in riferimento a And it burns, burns, burns, si tratta di costruire atmosfere più che immagini, attraverso dosaggi molto attenti delle intensità luminose, l’utilizzo di riverberi, di temperature colore che possano permearsi o fondersi, o ancora l’utilizzo di strumenti che possano corrompere la densità dell’aria come il fumo o l’umidità. Sarebbe opportuno poter celare sempre le sorgenti luminose, tanto che gli spettatori non avvertano la provenienza della luce, anche se purtroppo questo non è sempre possibile.

Tutto ciò augurandosi di poter realizzare qualcosa che il più delle volte sfugga alla percezione visiva per rivelarsi a una più intima, ed alla creazione più che di un immagine, di uno stato d’animo. In tal senso normalmente pongo una particolare attenzione anche alle luci di sala, andando a comporre l’ambiente all’interno del quale il pubblico sarà accolto e si installerà, e che sarà in qualche modo determinante per la percezione di quello a cui di lì a poco andrà ad assistere.

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Gli attori della Commedia dell’Arte non inventavano nulla: pescavano all’improvviso, da un proprio repertorio, i frammenti che consideravano adatti alla situazione scenica del momento. Nel tuo rapporto con la creazione fai lo stesso?

Non so se posso sostenere il parallelo. Mi posso soffermare su due elementi, quelli dell’improvvisazione e del repertorio.

Ho costruito il mio bagaglio attraverso esperienze molto eterogenee. Ho lavorato per spettacoli di teatro e danza, installazioni, applicazioni architetturali, sfilate di moda e allestimenti.

In ognuna di queste occasioni, sia che fossi l’autore delle luci, talvolta anche delle scene, sia che mettessi in pratica un progetto che mi era stato consegnato, ne derivava una modalità, una procedura.

Se da un lato tutto ciò ha avuto la grande importanza di andare a formare e raffinare un metodo, dall’altra può risentire dell’effetto collaterale di stabilire un canone.

Ciò per dire che è interessante, forse anche inevitabile, avere un repertorio, ma soprattutto lo è per confrontarsi con esso, decidere  cosa attingere e cosa soprattutto trasmodare.

Spettacoli e autori diversi, evocheranno esigenze diverse. Lo stesso si può dire per gli ambienti di rappresentazione.

Il rischio altrimenti sarebbe di sfociare nel manierismo.

Il lavoro sul palcoscenico permette una evoluzione dell’applicazione della luce in maniera organica a quella di tutte le altre componenti, attorno alle quali essa viene modellata, man mano che anch’esse prendono una loro struttura.

A questo momento viene destinata la quota di estro, di intuizione, che talvolta può portare a rivedere o adattare alcuni dei propositi concordati con gli altri autori e che sono serviti da terreno comune per la comunicazione degli intenti.

Al progetto riservo poi una parte molto importante del lavoro, alla quale dedico molto tempo ed energie. Mi permette di avere un buon confronto con quello che vado a realizzare, ma soprattutto pone l’attenzione sulle possibilità di replicabilità dello spettacolo, che seppur rappresentato in ambienti differenti, mantenga e procuri le stesse percezioni.

Tutto ciò tenendo ben conto di tutte le difficoltà, gli ostacoli e gli incidenti di percorso che si possono incontrare e che rendono interessante ciò che facciamo.

Probabilmente la vita stessa.

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MICHELE PASCARELLA

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info: simoneinfinito@gmail.com

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