Chicago Children’s Choir al Ravenna Festival. Cuore e maestria

Energico e versatile, il coro diretto con spirito affatto americano da Josephine Lee.

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foto di © Luca Concas

 

«Inspiring and changing lives through music»: aprendo il sito web del Chicago Children’s Choir il motto è chiaro, l’obiettivo esplicito.

Il coro, si legge nel bel programma di sala, è stato «fondato nel 1956, all’epoca del movimento per i diritti civili, dal reverendo Christopher Moore con l’intenzione di riunire ragazzi provenienti da diversi contesti per trasformarli in veri e propri cittadini del mondo grazie alla musica. Attualmente accoglie 4600 giovani che rappresentano tutte le aree postali in cui è divisa Chicago, con programmi in 80 scuole pubbliche e attività in ben 10 quartieri della città, nonché il celebre Voice of Chicago, conosciuto in tutto il mondo».

 

foto di © Luca Concas

 

Quello che sorprende e importa, in questo progetto che si presenta con finalità prioritariamente sociali, sono la qualità tecnica e la versatilità che lo caratterizzano.

Il programma intreccia un canto tradizionale degli Xhosa (gruppo etnico di origine bantu proveniente dall’Africa centrale) e Sergej Vasilevic Rachmaninov, lo spiritual e il jazz, Sam Cooke e un canto islamico, il gospel e colta musica contemporanea, Billie Holyday e il pop, Signore delle cime e Michael Jackson.

 

foto di © Luca Concas

 

Cosa tiene insieme forme e modi (mondi) sonori così distanti?

Un pervicace sincretismo, certo non distante dal sentire di certa società americana progressista: molte le razze dei circa settanta ragazzi sul palco, diverse le classi e i problemi sociali, a quanto ci raccontano a più riprese, fra un brano e l’altro.

Per nulla scevro dalla retorica un po’ televisiva da «Yes we can», «self-made man» e «heal the world» a cui l’egemonia statunitense da decenni ci ha abituato (costretto?), il messaggio che il Chicago Children’s Choir declama sarebbe certo fastidiosamente, vuotamente enfatico se questi ragazzi e queste ragazze non fossero così maledettamente bravi.

Guidati con mano ferma da Josephine Lee, direttrice artistica e presidentessa del CCC, eseguono con tecnica vocale quasi impeccabile un repertorio decisamente complesso.

Molti brani sono cantati su coreografie (idea di bellezza come simmetria e decorazione, composizioni a fiore e mimo di sentimenti “intensi”… ma tant’è) che i giovani interpretano più che dignitosamente, anche se forse con ingenuo eccesso di partecipazione.

Le partiture fisiche e vocali funzionano sovente come nel balletto romantico, con il solista incorniciato dai corpi (in questo caso: dai corpi e dalle voci) delle altre figure in scena, sulle quali spicca per contrasto.

 

foto di © Luca Concas

 

Di solito si è portati a pensare che esistano, almeno in astratto, due ottiche completamente diverse, secondo cui è possibile considerare questo genere di proposte: chiamiamole, per comodità, la considerazione sociale e la considerazione artistica.

La prima pone l’accento, a prescindere da eventuali risultati, sull’indiscutibile efficacia di questi strumenti nei processi educativi: più precisamente nel migliorare le possibilità da parte del soggetto di “rifarsi”. Ciò è spesso accompagnato da afflati predicatori: «We are here to change the world», cantano i nostri con entusiasmo (termine che nell’etimo greco, vale ricordarlo, rimanda all’avere «Dio dentro di sé», all’invasamento divino).

La considerazione artistica, al contrario, guarda alla qualità del lavoro, al risultato spettacolare a prescindere dalle caratteristiche particolari del contesto e dei partecipanti e da eventuali finalità altre (utilità sociale, pedagogica, ecc).

 

foto di © Luca Concas

 

Ecco la nostra tesi (e il concerto del CCC pare confermarla): l’utilità sociale è direttamente proporzionale alla qualità artistica, dunque all’efficacia estetica, e da essa dipendente. Detto altrimenti: gli strumenti dell’arte risultano tanto più efficaci in ambito sociale quanto più alto è il loro livello tecnico, quanto maggiori le competenze professionali messe in gioco.

«Il cuore senza maestria è merda» scrisse il polacco Jerzy Grotowski, uno dei grandi rivoluzionari del teatro del Novecento.

Dunque grazie al CCC: al loro cuore e alla loro maestria.

E grazie al Ravenna Festival per averceli fatti incontrare.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Visto/ascoltato a Forlì, Chiesa di San Giacomo, il 7 luglio 2017 – info: ravennafestival.org, ccchoir.org