Passi falsi di Maurice Blanchot: recensione di un capolavoro, in sette domande

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il Saggiatore ha pubblicato una densa raccolta di scritti, utili ad avvicinarsi al pensiero del monumentale romanziere, critico letterario e filosofo francese.

Non esattamente una lettura da ombrellone, sia detto: Passi falsi di Maurice Blanchot è una silloge imponente quanto complessa, impegnativa quanto nutriente. Quasi quattrocento pagine per attraversare le sue riflessioni sul linguaggio, sulla filosofia, sul romanzo, sulla poesia e non solo.

Maurice Blanchot (1907-2003) è intellettuale poliedrico e coltissimo dalla biografia poliforme: da giovane collabora con riviste di estrema destra (ma si schiera contro Hitler e le deportazioni degli ebrei nei campi di lavoro) per poi virare verso l’estrema sinistra; nel ’44 rischia la fucilazione ed è salvato in extremis; tra i suoi amici più cari vi sono Georges Bataille, Marguerite Duras ed Elio Vittorini; con Calvino, Pasolini, Günter Grass, Hans Magnus Enzensberger e altri progetta una rivista internazionale che poi non nascerà; corrisponde a lungo con Derrida; critica duramente Heidegger per il suo silenzio sull’Olocausto. Questi pochi cenni sono forse sufficienti a dare idea della ridda di stimoli e incontri che hanno nutrito un pensiero tanto luminoso quanto rigoroso, stratificato e, a tratti, finanche oscuro.

Non è possibile -e forse nemmeno auspicabile- riassumere per intero in queste poche righe l’orizzonte di indagine di questo smisurato autore: daremo conto, per piccoli frammenti, di alcuni passaggi che abbiamo trovato particolarmente aderenti all’esperienza di noi donne e uomini d’oggi. E lo faremo -in contraltare al tono perentorio, finanche apodittico di molte affermazioni di Blanchot, atte a istituire dall’interno del discorso una forma profondamente interrogante- mediante sette esplicite domande, rivolte alla curiosità e al pensiero dell’eventuale lettore.

 

 

1
Nelle prime righe del denso saggio di apertura, dall’iperbolico titolo Dall’angoscia al linguaggio, si leggono queste semplici parole: «È grottesco prender coscienza della propria solitudine rivolgendosi a un lettore, e con mezzi che impediscono all’uomo di esser solo». Tale paradosso pare caratterizzare l’odierno -spesso inconsapevole- uso dei diversi social. O no?

2
«Quando qualcuno crea un’opera» si legge più avanti, nello stesso saggio «tale opera può essere destinata a servire un certo fine, morale, religioso, politico che le è esterno; diciamo allora che l’arte è al servizio di valori estranei; si scambia in modo utilizzabile con delle realtà di cui accresce il valore». L’arte che pone unicamente il linguaggio come mezzo e fine del proprio operare di quali realtà accresce il valore?

3
Nella lettura quasi buddista che Blanchot fa di Meister Eckhart, è presente questa citazione del teologo tedesco:  «Se io non fossi, nemmeno Dio sarebbe». Quali pratiche mettiamo in atto, quotidianamente, per alimentare l’elemento divino presente in ciascuno di noi?

4
«L’esperienza interiore è la risposta che attende l’uomo allorché ha deciso di non essere che domanda», si legge nella riflessione attorno a L’esperienza interiore di Georges Bataille. In un’epoca in cui la sospensione del giudizio è annichilita e la distanza fra l’incontro con una forma del mondo e un nostro giudizio o commento su di essa è sempre più breve (leggasi, ad esempio, la ridda di pollici alzati, cuoricini e faccine con cui reagiamo istantaneamente a molti degli stimoli che ci giungono dalla rete), come è possibile coltivare l’attitudine a «non essere che domanda»?

5
Nel saggio Ricerche sul linguaggio si trova un folgorante interrogativo, che riportiamo tale e quale: «Gli uomini comunicano veramente tramite ciò che hanno di comune e conseguentemente di esteriore, oppure tramite ciò che hanno di assolutamente personale?».

6
«Sciupare un’insazietà di vita», si legge nelle riflessioni che Blanchot dedica a Rimbaud. Che cosa ci sazia davvero? E in che modo la fame è, concretamente, un valore da non sprecare?

7
In quello che è forse, per noi, lo scritto più folgorante dell’intera raccolta (L’angelo del bizzarro, dedicato a un saggio di André Gide su Henri Michaux), sono presenti due quesiti -che riportiamo tali e quali- che in noi, figli di una idea di Bellezza come imitazione della natura e di un’epoca ontologicamente narcisistica, dovrebbero in molti modi risuonare: «In che modo interessare il lettore a un racconto in cui non si tratta di lui? Con quali risorse risvegliare in lui la curiosità o meglio ancora l’angoscia a proposito di esseri che per lui non sono niente, in cui non riconosce niente di se stesso e i cui sentimenti sfuggono a ogni rappresentazione?».

A lungo si potrebbe (e dovrebbe) continuare, ma per ora è giusto fermarsi. E ringraziare.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Maurice Blanchot, Passi falsi, il Saggiatore, Milano, 2020, pp. 392, € 29 – info: https://www.ilsaggiatore.com/libro/passi-falsi/