Forever Young alla Corte Ospitale. O della tradizione

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A dispetto del nome del progetto, le proposizioni da noi incontrate hanno presentato costituitivi, reiterati riferimenti a un passato più o meno remoto. E non c’è nulla di male, ça va sans dire.

«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma»: il celeberrimo postulato di Antoine-Laurent de Lavoisier vale a ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che quello dell’originalità è un falso problema.

È uno dei tanti vizi della cultura occidentale -moderna e post- il ritenere, più o meno consapevolmente, che ciò che è nuovo sia per forza di cose migliore di ciò che non lo è o, allargando lo sguardo, che qualcosa che viene dopo sia senz’altro più evoluto di altro che lo ha preceduto.

Sgombrato il campo da questo ahinoi comune pre-giudizio, ci accingiamo a restituire qualche breve pensiero non tanto nel merito delle creazioni in cui ci siamo imbattuti alla Corte Ospitale di Rubiera, piuttosto sul segno che esse portano e sul pensiero che le ha fatte arrivare fino a lì.

La Corte Ospitale, sia detto per chi non la conosce, è -come si legge nel sito web dedicato- un fascinoso «complesso monumentale del XVI secolo, un tempo luogo di sosta, cure e ristoro per i pellegrini in transito lungo la Via Emilia, adibito a partire dal 2000, a seguito di un attento restauro, a polo culturale del Comune di Rubiera».

E non solo, si potrebbe aggiungere: per la terza edizione del progetto Forever Young sono arrivate oltre centosessanta candidature da tutta Italia. Fra queste, cinque sono state selezionate per la finale ed hanno avuto a disposizione nei mesi scorsi un periodo di residenza negli spazi della Corte che, si legge ancora nel sito dedicato, «dispone oggi di diverse sale attrezzate per le prove e i laboratori e di una foresteria con oltre 70 posti letto».

Al vincitore, individuato da una commissione formata da Claudia Cannella (Hystrio), Carlo Mangolini (Teatro Stabile del Veneto), Fabio Masi (Armunia), Giulia Guerra (La Corte Ospitale), Gilberto Santini (AMAT) e Fabio Biondi (L’Arboreto-Teatro Dimora, La Corte Ospitale ::: Centro di Residenza Emilia-Romagna) è andato un premio di produzione di ottomila euro. Riceverà inoltre un accompagnamento per la distribuzione nella prossima Stagione: cifre e condizioni non di poco conto, nel più che precario panorama odierno, rese possibili dal contributo della Regione Emilia-Romagna e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

E da una visione che sembra corretto in questa sede, seppur brevemente, sottolineare.

Il progetto “capitanato” da Giulia Guerra ha proposto un fecondo e stratificato discorso (termine da intendersi foucaultianamente come «luogo dell’articolazione produttiva di potere e sapere») assumendosi la responsabilità di instaurare ciò che Jacques Rancière definisce «regime del sensibile»: un modo di organizzazione delle evidenze che determina il rapporto fra ciò che, in una data epoca o in un determinato contesto (in questo caso: la comunità riunita a Rubiera di teatranti e affini, essendo la presenza di “pubblico vero” del tutto residuale) è sensibile e ciò che non è sensibile, fra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile e -di conseguenza- fra ciò che è enunciabile e ciò che non lo è. Per chiarezza (e per esempio): alla Corte Ospitale si è visto lo spettacolo Canaglie -per citare uno dei cinque finalisti-, e dunque se ne è potuto parlare, perché la commissione lo ha selezionato. Se così non fosse stato, gli artisti non avrebbero potuto dir la loro e noi non avremmo avuto modo di dir la nostra sul loro dire. Fin qui, nulla di nuovo: questo è ciò che fa, con tutta evidenza, qualsiasi giuria o direttore artistico, illuminato o meno, di qualunque concorso o manifestazione, grande o piccola che sia.

Quel che pare doveroso sottolineare, in questa precisa occasione, è l’intenzione (nell’accezione ancora una volta etimologica di in-tensione, di spinta che dall’interno del soggetto muove verso l’altro da sé), che nel caso della Corte Ospitale si fa progettualità.

E si fa luogo, direbbe Michel de Certeau.

Diversamente da altri colleghi critici che ci hanno preceduto non ci addentreremo nell’analisi (né tantomeno nel giudizio) di e su ciò che è stato dato a vedere, limitandoci a una constatazione: è emerso un netto ritorno alle forme e ai modi della tradizione – fatto di per sé neutro, come si diceva in apertura.

Ci sembra un normale “prendere la rincorsa” nell’andamento naturalmente altalenante della Storia delle Arti: basti pensare, un esempio fra mille dal mondo delle arti visive, al corposo ritorno alla pittura dopo Marcel Duchamp e i suoi orinatoi e prima delle tele tagliate da Lucio Fontana.

Analogamente, ci sembra che dalle giornate di Forever Young sia emersa con forza un’idea di teatro come specchio della realtà (teso al riconoscimento e alla rappresentazione del reale, alla riconferma dell’identità personale e collettiva) e l’adozione di canoni e stilemi consolidati nella/della tradizione/convenzione.

Alternanza di espressione e stilizzazione, scene con puntuali intermezzi sonori/musicali, uso scenico di una lingua quotidiana che rinuncia ad arzigogoli e artifici, recitazione prevalentemente naturalistica con immedesimazione nel personaggio che si interpreta, uso del corpo didascalico rispetto al testo che si recita: teatro testocentrico, con tutti gli elementi della messinscena volti -per via ora descrittiva ora simbolica- a servirne la veicolazione.

Grazie alla mappatura offerta da Forever Young, che aiuta a orientarsi ulteriormente nel nostro presente.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Visto alla corte Ospitale di Rubiera (RE) il 7 e 8 ottobre 2020 – info: corteospitale.org