Il ritorno di Sandra Oh nei panni della Direttrice

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La direttrice - Locandina

La Direttrice (titolo originale: The Chair) è una serie tv Netflix che si propone di mostrare le dinamiche di potere all’interno dei college americani. Nella scena iniziale, vediamo la protagonista di origine coreane Ji-Yoon Kim – interpretata da Sandra Oh, universalmente nota per Grey’s Anatomy – al suo primo giorno da direttrice del dipartimento di inglese della Pembroke University: la sedia dietro la sua nuova scrivania, su cui si siede fiera, in quanto prima donna (e di origine asiatica) a ottenere un ruolo prestigioso nel suo ambiente, si rompe però all’istante, facendola cadere a terra, in un’immagine che sintetizza un po’ tutta la serie.

“Mi sento come se qualcuno mi avesse dato una bomba a orologeria, perché voleva essere sicuro che la terrà in mano una donna quando esploderà” afferma la protagonista, una volta compresa la quantità di  problemi ereditati: primo tra tutti, la parte più anziana del corpo docente, costoso e alle cui lezioni non partecipa praticamente nessuno, ma che si guarda ben dal lasciare il posto ai più giovani. Il rettore Paul Larson chiede a Ji-Yoon di sbarazzarsi di tre di questi professori, anche se la narrazione si concentra in particolare su due di loro: Elliot Rentz, esperto di Melville e interpretato da un glaciale Bob Balaban, e Joan Hambling, medievalista studiosa di Chaucer messa in scena da un’ottima Holland Taylor. La caratteristica principale della protagonista è la capacità di empatia, perciò cerca di evitare il licenziamento in tronco dei suoi colleghi inventandosi soluzioni alternative per riempire le loro aule.

Anche il dipartimento pecca in termini di popolarità: per rilanciarlo, Ji-Yoon propone di affidare la cattedra onoraria a Yasmine McKay, giovane insegnante afroamericana che gode di molta stima da parte degli studenti. Per provare a rilanciare l’immagine del professore Rentz, la direttrice chiede a quest’ultimo e a McKay di fare lezione insieme, mettendo così a confronto due generazioni e due mondi culturali completamente diversi, uno in declino e l’altro in ascesa, con risultati ampiamente prevedibili.

A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge un’altra questione: il bizzarro ma popolare professor Bill Dobson viene filmato mentre fa il saluto nazista durante una lezione, dando per scontato che tutti avrebbero capito la sua ironia. Il video diventa subito virale e genera un’ondata di indignazione e proteste. L’ennesima patata bollente da gestire per la neodirettrice.

La scelta del soggetto è un punto di forza per la serie: i college e le dinamiche di potere che si creano al loro interno sono una miniera di trame ancora tutte da esplorare. Proprio quest’ultimo tema è ben rappresentato, attraverso dialoghi efficaci e il confronto tra le tre storie femminili: quella di Joan Hambling, ormai anziana, che ha subìto per tutta la carriera, senza rendersene conto, un sistema che favoriva regolarmente il sesso maschile; quella di Ji-Yoon Kim che ha fatto carriera comprendendo le storture del sistema ma adattandosi a esso fino ad arrivare a un ruolo di responsabilità, salvo poi scoprire che sotto sotto era una fregatura; e infine, la giovane Yasmine McKay che vede ormai quel sistema al tramonto e che non è disposta ad adattarvisi perché, si chiede, “che cosa sono loro senza di noi a questo punto?”.

Sono presenti però anche diversi elementi negativi. Innanzitutto, il tono con cui le vicende sono raccontate: l’obiettivo degli autori è quello di fare una satira del mondo universitario, ma l’umorismo funziona solo a fasi alterne. Inoltre, all’interno di una stagione di sei puntate della durata di trenta minuti ci sono numerose sottotrame inconsistenti e poco approfondite; i ruoli secondari appaiono e scompaiono nel giro di una puntata e non lasciano nulla alla narrazione; spesso i personaggi e alcune situazioni ricadono nello stereotipo. Penso in particolare alla rappresentazione che viene fatta del mondo giovanile, visto come un blocco monolitico dal pensiero unico e indistinto: nelle proteste contro il professor Dobson non c’è una voce discordante dall’indignazione che percorre tutto il gruppo studentesco, in preda a un’euforia da cancel culture. Confrontandomi su questo con un’amica, lei sosteneva che lo scopo della serie non fosse narrare questo aspetto all’interno delle università americane, nonostante sia uno dei temi culturali più dibattuti dall’altra parte dell’oceano. Sì e no. Se vuoi raccontare gli studenti come un ingranaggio del meccanismo di potere all’interno dell’università, o quantomeno di pressione su esso, allora anche essi dovrebbero venire rappresentati nella loro complessità così come viene fatto con il mondo degli adulti, all’interno del quale sono presentate posizioni differenti e contrastanti.

La conclusione della serie, però, riequilibra il risultato finale. La protagonista riscatta se stessa e i suoi inutili sforzi per non scontentare nessuno, perseguiti per tutte le prime cinque puntate, con un discorso molto franco che smaschera i goffi tentativi di chi, in maniera demagogica, cerca di dare il contentino ai giovani manifestanti per rabbonirli. Infine, messa in difficoltà da alcuni membri del dipartimento, prende in mano la situazione e compie un atto di giustizia, tardivo ma comunque importante, dimostrando che il cambiamento è realizzabile ma che esso difficilmente coincide con il migliore dei cambiamenti possibili, bensì è frutto di compromessi e fatiche. E proprio per questo è molto più concreto e reale.