Mirco Denicolò si presenta con i capelli elettrici e grigi, si dice affascinato dalla tecnologia, la sua voce è tanto pacifica da sembrare sulle nuvole: è un personaggio uscito da un libro per bambini, a metà tra l’inventore e l’artista. In vista della sua ultima mostra, Un giardino allo specchio, che verrà inaugurata venerdì 15 ottobre alle ore 18 presso la galleria d’arte contemporanea Il Vicolo di Cesena, mi ha invitato nel suo studio faentino per raccontarmi un po’ di sé.
Nasci con il disegno nella mano, ti trovi subito a tuo agio con la ceramica e infatti per molti anni la lavori per gli altri, prima di trasformarla nel tuo mezzo espressivo principale. Nel 2011 arriva l’animazione. Da dove nasce il bisogno di esplorare diverse modalità comunicative?
«Da adolescente avevo un forte interesse legato a segni e simboli, a un’espressività molto antica e rigida in cui le emozioni quotidiane non rientravano. Su quello ho lavorato una decina d’anni, poi mi è sembrato non ci fosse tutto quello di cui avevo bisogno e ho tentato di recuperare la mia voglia di raccontare. Questo pendolo che va da una concezione totalmente formale, in cui è tutto significato, a una grande partecipazione emotiva, in me c’è sempre stato, ma a un certo punto si è spostato nella direzione del raccontare storie: lo si può fare con una immagine fissa, come l’illustrazione; sfogliando delle sequenze di immagini, nel caso dei fumetti; oppure animando, e quando sono arrivati gli strumenti tecnologici per farlo a basso prezzo, io avevo accumulato tante emozioni che aspettavano di essere portare alla luce. Mi rendo conto di essere tecnicamente fragile, ma ci sono delle aree in cui va bene anche così».
Le tue opere hanno una forte componente narrativa e fiabesca, accolgono spiriti domestici, creature delle acque, voci provenienti dai pozzi, quasi fossero il contenitore della parte più cupa e tormentata di un uomo che appare sorridente e gentile. A fare eccezione sono proprio le composizioni che esporrai venerdì: piante che fioriscono, radici che si sviluppano, l’uso del colore rosa, assenza di figure che appartengano a un immaginario fantastico. Persino il bianco non è bianco, ma un colore che va dall’avorio al paglia, rilassando lo sguardo. Cosa ti ha portato a questo cambiamento?
«Un anno fa ero a casa di mia madre e siamo andati a fare un giro al cimitero. Ha un’ottima memoria, così le ho chiesto di fare l’elenco di tutti i parenti. Il giorno stesso, uscendo in giardino ho concentrato l’attenzione su un pezzo di terra al quale associo alcuni momenti della mia infanzia: l’odore di terra bagnata, mia madre che raccoglieva le foglie secche, gli stravolgimenti fatti da mio padre. Poi ho visto la decadenza di questi anni: una casa con delle crepe, zone disordinate, erbacce che crescono. Queste due cose insieme hanno creato un cortocircuito. È uno spazio che racconta la fine della vita, però non posso dire che mi abbia tirato giù di morale, mi pareva densissimo».
Non rimpiangi, quindi. Ti sei riappropriato dei ricordi, togliendo il peso del rancore, della nostalgia, di quanto accumulato dallo scorrere del tempo. Hai raggiunto e sei riuscito ad esprimere una nuova serenità.
«Dopo la morte di mio padre pochi anni fa, è arrivata quella di mio fratello nel 2020. Il risultato di cominciare a fare i conti con il fine vita è riscoprire la capacità di mettere nelle cose una quantità di cuore che ti eri dimenticato di avere. Recuperi delle cose di te stesso di quando avevi dodici anni, trent’anni. La differenza è che hai un vocabolario più ampio per esprimerlo e, per fortuna, pietà nei tuoi confronti. Dici: “non sono un eroe, non sono neanche un genio, sono davvero un povero diavolo”. Una cosa che penso spesso di me è “io sono un perdente mancato”: ci vuole pochissimo a essere una di quelle persone che si vedono in certi bar, completamente perse. Rendermene conto mi ha permesso, prima ancora di avere uno sguardo di tenerezza nei loro confronti, di averlo un po’ alla volta nei miei. È il tentativo di morire sani».
E questa riflessione come si è trasformata in arte?
Ho lasciato decantare le emozioni, che poi hanno generato la voglia di disegnare quel luogo. Il disegno è come il Tai Chi: lo pratichi quotidianamente e con gli anni i gesti iniziano ad addensarsi. Li esegui migliaia di volte, poi un giorno il gesto del braccio riesce ad essere pieno, essere significato. Inoltre, ho accettato dei piccoli squilibri che di solito non tollero, perché qui alcuni tratti li sento vicini a ciò che provo e convogliano delle emozioni».
Ti muovi sempre verso nuovi strumenti espressivi, ma senza abbandonare quelli passati. Nei video per Un giardino allo specchio due voci accompagnano il visitatore mentre una sorta di albero genealogico al contrario si sviluppa in profondità, a ritroso, alle radici che ritroviamo incise sulla ceramica invetriata. Quelle voci, poi, assumono un’altra forma su carta. Nonostante i linguaggi artistici lontani fra loro, ogni opera sembra completarsi nell’altra. Come hai gestito il lavoro passando da diversi materiali?
«Ci sono molti linguaggi possibili, ma a me piacciono le composizioni. Ho lasciato più spazio al vuoto. La preparazione è consistita in centinaia di disegni, poi ho scelto il supporto, che per me è come dover inventare la carta: l’oggetto su cui lavoro deve raccontare altre cose. Per gli oggetti appesi ho deciso una forma che ricorda una pupilla, o uno specchio convesso, mentre il quaderno è servito per dilatare gli spazi: montare un’immagine attraverso l’impiego equilibrato di forme e significanti, di intervalli pieni e vuoti, è capace di trasportare tantissimo significato. Infine, sentivo che l’idea dello sfogliare fosse importante per me, perché ci sono i racconti che si sentono nei video, è un collegamento».
C’è un uomo del presente che va alla ricerca della propria identità scavando nel giardino di sua madre; un artista che vuole riconoscersi allo specchio, e per farlo si volge al passato. Lo fa con un mezzo antico e povero come la ceramica, esprimendosi con le conoscenze che sono la somma delle esperienze altrui, ma con uno sguardo dedicato al futuro. Un pensiero sboccia dopo aver terminato l’intervista, nel tragitto tra il suo studio e la mia macchina: Mirco Denicolò è l’espressione della sua umanità, che è anche la mia e probabilmente anche la vostra.
[…] suo occhio non ignora le cose piccole ma belle che la vita ci riserva. Trovate l’intervista qui, scritta per Gagarin […]
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