Pugni e pensieri: Era meglio Cassius Clay

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Ci sono tante cose che vengono in mente guardando Era meglio Cassius Clay, andato in scena alla Casa del Teatro di Faenza venerdì scorso, all’interno di una Stagione variopinta e accessibile (al prezzo simbolico di una moneta).

Lo spettacolo, diretto da Rita Frongia, con Stefano Vercelli, Gianluca Balducci e Angela Antonini mette in scena una situazione inverosimile, ai limiti dell’assurdo.
Una ragazza, carica di entusiasmo si trova a dover animare una festa che non c’è, nell’abitazione (o meglio nell’habitat come ha ben detto nel suo articolo Michele Pascarella) di due individui ammantati dal silenzio e dal mistero.

 

 

Uno è un anziano, immobile sulla sua sedia a rotelle, forse un ex campione di boxe. L’altro un giovane uomo, che parla un linguaggio rarefatto, pieno di ripetizioni ma fin troppo diretto. Sopra ai due, un uccello impagliato che fa da oscuro presagio.

Sembra una variante di Psycho, il film di Alfred Hitchcock, ma non ci ha niente a che fare. Come ho già detto, infatti, sono tante le cose che vengono in mente guardando questo spettacolo. In Psycho è una.

Vien da pensare, tra l’altro, alla figura di un boxeur del secolo scorso: non Cassius Clay, ma Arthur Cravan.

 

Arthur Cravan

 

Cravan fu poeta e pugile, nipote di Oscar Wilde, capostipite più o meno consapevole del dadaismo, disertore in undici paesi, provocatore instancabile.

Il nesso tra Cravan e lo spettacolo non è solo l’ombra aleggiante del pugilato, ma anche lo stile artistico “a cazzotto nella pancia” che stordisce e lascia ammutoliti, nel nostro caso soprattutto all’inizio e al termine della rappresentazione, in quello di Cravan in tutto quanto quello che faceva.

Cravan parlava, scriveva e componeva mettendo in scena contraddizioni, bugie e mezze verità e nel farlo toccava (o meglio, pestava), più o meno consapevolmente, i tasti della bellezza e della grazia.

Come quella volta che descrisse il primo (e mai avvenuto) incontro con lo zio Oscar.
Nel racconto, Oscar Wilde è vecchio, muto, immobile nella sua sedia, troppo stretta per il suo culo. Fa pena al giovane pugile. Eppure, dice Cravan, “era bello”. Tanto che lui non può far altro che abbracciarlo, carezzarlo e baciarlo e Wilde, nella sua immobile quiete, lascia fare.

 

Illustrazione di Mauro Cicarè, tratta dal libro Io sono Arthur Cravan

 

È la stessa situazione che ritroviamo sul palco, quando Gianluca Balducci (il giovane uomo) bacia, stringe, massaggia Stefano Vercelli (il vecchio silenzioso).

E nello spettacolo, come nel racconto, da questa immagine si aprono una serie di contraddizioni che portano al contempo al riso e al pianto. L’incontro di giovane e vecchio, di ricordo e presente, di entusiasmo e di tristezza.

E quando si oscilla così tra riso e pianto si è facilmente preda dell’imbarazzo.

Uno stato in cui si è vulnerabili, lo sapeva bene il Cravan pugile, e involontariamente inclini ad accogliere ciò che arriva, che sia una carezza o un metaforico pugno nello stomaco. Ecco allora che l’imbarazzante diventa un tramite per la ricerca di significato, per l’esplorazione del sé e del fuori di sé (come scrive anche il “prete controvento” Marco Pozza). Da questa esplorazione nascono i molti pensieri che vengono alla luce guardando Era meglio Cassius Clay.

Pensieri che la regista decide di mettere in scena, regalando, a corredo della rappresentazione, una performance aggiuntiva. Un radiodramma, Gli occhiali da sole, nel quale si ascolta il flusso mentale di uno spettatore (Gianluca Stetur) mentre assiste allo spettacolo.

Tuttavia pochi dei suoi pensieri riguardano quello che avviene sul palco.

Nel radiodramma sembra che lo spettacolo scompaia dalla mente, mentre prendono avvio altre storie personali, di tribunali e alcolismo. Certo, le voci degli attori restano presenti, flebili, sotto quelle dei pensieri, tuttavia ne risultano sminuite. Ci si ritrova a viaggiare sul binario di un racconto parallelo, meno potente, più ordinario, quasi banale. Come a insabbiare l’imbarazzo con uno nuovo e più comprensibile, ma meno denso di mistero e di stupore e meno prolifico e vitale di quello messo in scena.

 

 

Tuttavia l’esperienza dello spettacolo resta impressa, come la carezza di un pugile, ed è una visione di cui essere grati. Anche per la cornice nella quale è inserita: quella del teatro di comunità promosso dal Teatro Due Mondi, che offre spettacoli d’autore per creare imbarazzo, bellezza, stupore.

E con questi elementi costruire una rete umana e sociale.

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