Roma è anche un’Anomalia

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Visitare una grande città non significa per forza doverlo fare con un approccio pantagruelico. Si può, volendo, ridurre tutto ad esperienze circoscritte (eppure intense) e tornarsene a casa senza l’effetto di un’indigestione. A tal proposito redigo mentalmente, per ogni città “fuorimisura”, un alfabeto di luoghi piccoli tra l’ostico e il remoto.

Vi sono difatti mete accessibili a tutti ma la cui identità, sovente contraddittoria, non risulta sempre accogliente. Potrebbero essere paragonate a dei sotterranei, a dei mezzanini ovvero a luoghi che non rimangono aderenti all’abbacinante realtà della vita di superficie su cui poggiano. Mi sembra opportuno portarvi alcuni (rari) esempi: a Firenze c’era la Latteria dove mangiavo una crema bianca cotta a bagnomaria che adesso non esiste più. La signora Vanna, dai modi spicci e dal carattere brusco, era un’ostessa militante che redarguiva aspramente gli avventori che osavano chiedere una fetta di limone per il tè. Siccome era riportata sulle guide delle botteghe storiche della città alcuni turisti ci capitavano inavvertitamente con l’intento di far foto e rimanevano oltraggiati dal carattere sulfureo della proprietaria. Io ho continuato per anni a prendere il treno per Firenze con il quasi e solo unico scopo di recarmi in Via degli Alfani e godermi quei suoi racconti “fuori dal tempo” visto che io manco lo zucchero metto nel tè, figuriamoci il limone.

Un altro di questi luoghi remoti lo troverete invece a Roma. Il mio suggerimento è di scendere a Termini, camminare fino al quartiere di San Lorenzo, trovarvi magari alloggio e poi infilarsi per le sue viuzze perpendicolari che prendono i nomi dagli antichi popoli latini: Via dei Reti, Via dei Volsci, Via dei Sabelli…

Tutti vi diranno che San Lorenzo è cambiato ma cosa non lo è? E’ un luogo dove convivono apertamente disagio e partecipazione, inciviltà e aggregazione. Ogniqualvolta imbocco via dei Campani il mio timore è di trovare la saracinesca abbassata o peggio un negozio di cover di cellulari al posto della prima lettera del mio singolare alfabeto urbano: A di Anomalia, A di Anarchia. Eppure la Libreria Anomalia è ancora lì, “tra fragilità ed entusiasmi, decisione e stanchezza”. Proprio sul loro sito si legge che “Quando il collettivo anarchico di via dei Campani era impegnato nel recupero dei locali dell’attuale libreria, il 1979 già si affacciava sul riflusso del decennio successivo”. La libreria ha dunque la mia età e appena un paio di anni più tardi, nel 1981, si aggiungerà ad essa il Centro di documentazione anarchica e l’Archivio.

 

 

Prima ancora che ai libri il mio sguardo va alla scala appoggiata agli scaffali che tanto mi ricorda quella scorrevole della biblioteca nel paese in cui sono nata e su cui salivo sempre di slancio. Da bibliotecaria so che il primo insegnamento “contemporaneo” che ti impartiscono è quello per cui i libri devono essere collocati in modo da attirare il potenziale lettore e mai sottrarsi allo sguardo perché se ne stanno troppo in basso o troppo in alto. Figuriamoci se ciò non vale per una libreria. Non metto in dubbio questa necessità di rendere il libro appetibile, devo però ammettere che un conto è la propria professione, un conto è la propria natura che va in direzione ostinata e contraria. La logica del consumo non prevede che tu debba salire su una scala per trovare quello che cerchi! Il punto è che il miglior metodo di scoperta attraverso i libri è proprio la totale assenza di uno scopo: io non salgo sulla scala perché so cosa troverò lassù ma salgo proprio perché non lo so. Chi entra ad Anomalia pur sapendo che troverà testi su marxismo, movimenti degli anni 70, lotta armata, femminismo, controcultura e storia del movimento operaio, finirà con l’uscire da lì con un libro ficcato in borsa del tutto inimmaginabile, probabilmente introvabile altrove.

Anomalia ha l’atmosfera di una caverna di Aladino coi suoi soffitti a volta, l’odore dell’umidità che si attacca alle pareti e alle pagine dei libri. I libri di Anomalia sapranno di selvatico anche una volta che li avrete portati a casa. Come scrive Martin Latham nel suo I racconti del librario “la giusta libreria, così come il giusto libro, ci rimanda all’infinito, con gli scaffali che svaniscono nell’oscurità per raggiungere idealmente un luogo che si direbbe disegnato da Escher”. Virginia Woolf recuperava il suo equilibrio compromesso dagli splendori e dalle miserie della strada entrando in una libreria dell’usato e nel racconto A zonzo per le vie di Londra scrisse “soltanto vedere la moglie del libraio coi piedi davanti alla stufa, ci calma e ci mette di buon umore“. Ho provato la medesima sensazione anche l’ultima volta: pioveva, era già buio ed entrando da Anomalia, dopo un laconico e asciutto scambio di saluti, mi hanno lasciata libera di sedere, togliere gli occhiali appannati per avvolgermi nell’indistinto e sfuocato spazio del miope e siccome le figure non le vedo ma le indovino, so che il libraio è andato a sedersi nella biblioteca accanto, con la lampadina accesa nel suo beato isolamento. Poi qualcuno si affaccia alla porta e chiede se quella sia una palestra, il libraio risponde con una battuta ironica, piacevolmente scorbutica. Non entra nessuno per almeno un’ora.

Se cercate un luogo inattuale e in ombra dove la civiltà del libro è ancora costituita da pagine macchiate di spore e dal brutto carattere, pagine complesse ricche di inferenze, dense di richiami e domande, incamminatevi in via dei Campani e sperate che Anomalia sia ancora lì.

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