Dalla terra alla luna, fermandosi a Prato

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È un venerdì di ottobre, un giorno di lavoro, ma decido di prendere ferie e andare a Prato per celebrare in modo insolito quella che gli orientali chiamano La festa della Luna, conosciuta anche come Mid-Autumn Festival e in Cina Zhongqiu Jie. La sera prima la luna era quasi piena, mi era comparsa davanti mentre percorrevo in macchina la strada verso casa: gigantesca, sovrastava l’abitato mostrandosi propiziatoria al viaggio previsto l’indomani.

Parto presto la mattina e prendo il treno che attraversa l’Appennino, quello in cui le buie e frequenti gallerie consentono di intravedere il paesaggio come tanti fotogrammi ricomposti che appaiono e scompaiono, violentemente e senza posa. Realizzo che stiamo arrivando quando davanti allo sguardo scivolano immagini di ciminiere, tracce nel paesaggio in movimento di opifici industriali del passato. Ci sono molte Prato, ovviamente: ci sono le antiche case torri, i merli del Castello Svevo in pieno centro, c’è il ciclo di affreschi di Filippo Lippi e quell’incredibile chiostro romanico in marmo bianco e serpentino verde, il più silenzioso e deserto della Toscana. Ci sono anche altre cattedrali per chi desideri sganciarsi dal Rinascimento: sono le vecchie fabbriche abbandonate o riconvertite a poli culturali, un tempo pullulanti di attività, di uomini e rumori di macchine, oggi coi pavimenti coperti di erba, grandi lucernari, muri scrostati, ingressi monumentali oppure sedi prestigiose di reperti, collezioni librarie e tessuti preziosi.

C’è poi quella Prato che chiude le saracinesche in pieno centro all’ora di pranzo e magari da una città non te l’aspetti, da un “paesone” sì. Quel venerdì però non sono interessata a rimanere in centro, mi dirigo sicura verso l’arco gotico di arenaria della trecentesca Porta Pistoiese. Quello è il primo dei varchi geografici e temporali che oltrepasserò quel giorno e che ironicamente guarda verso occidente. A pochi passi da lì, infatti, c’è uno scampolo di Cina popolare in cui non c’è traccia di pausa pranzo, tutto è brulicante, operoso e avulso dall’immaginario patinato che gli occidentali hanno di Chinatown. La prima volta che vi arrivai, ricordo che era un torrido giorno d’estate, fu tutta una vertigine improvvisa costellata di mazzi di pak-choi, pesce di fiume fritto, pailettes su abiti a buon mercato ed esuberanti tori di giada. Forse quel giorno mi aspettavo tracce di festa, lanterne appese e invece non c’era niente di diverso: un manipolo di vie ancora tranquillo, data l’ora, pochi clienti, molto tempo per stare curvi con lo sguardo sul telefono. Una coppia mi guarda dalla finestra di un appartamento che sta sopra un negozio vuoto, col cartello “AFFITTSI” (sic).

 

 

Anche io li guardo, fumano entrambi e intanto penso a tutti quelli che a casa sanno che sono andata alla Festa della Luna e chissà cosa immaginano io stia mai facendo.

In realtà io sono lì perché so con sicurezza che c’è un luogo in cui si festeggia. Percorro alcune stradine anonime su cui affacciano odori forti e retrobottega angusti e poi lo vedo, il mio secondo varco. La sala Zentè in cui amo andare si trova al piano terra di un condominio qualsiasi di una strada qualsiasi ma quella porta conduce ad un luogo che non ha nulla di ovvio né di immaginato.

Quixiu Cristina Hua è di là, fa cenno il marito con la testa, e infatti la trovo al tavolo seduta con due ospiti. Con gesti lenti e suggestivi sta offrendo un curioso Pu ehr contenuto in una scorza verde di agrume. Il convivio si scioglie di lì a poco, gli altri ospiti devono andare e mentre lei li saluta io mi guardo attorno, ogni volta incapace di cogliere i numerosi dettagli dell’ambiente: torte di luna, utensili per la calligrafia, un ramoscello la cui sembianza vegetale si proietta lieve sulla tenda illuminata dal sole. In questa mattina di metà autunno (secondo il calendario lunare cinese) assisto a una preparazione antica che si rivelerà essere un accorto equilibrio tra gli elementi chiamati in causa. Cristina Hua mi mostra la scelta accurata di utensili e ingredienti utilizzati nel Diancha.

 

 

Festeggiamo la luna del raccolto dunque, preparando il tè e le foglie alla maniera antica della Dinastia Song: le scaldiamo, abbrustoliamo,  pestiamo e trituriamo fino a farle diventare polvere. Tutto questo processo necessita un tempo lento, un meticoloso prodigarsi di cura ed equilibrio. Maneggio oggetti che non hanno un nome corripondente nella mia lingua. Tra questi c’è un piccolo rullo che mi ricorda il giocattolo di un bambino. Ne Il canone del tè di Lu Yu leggerò poi che l’utensile “deve essere fatto di legno di mandarino. In mancanza si può ricorrere al legno di pero, di gelso, di paulonia o di maclura”. Le mie mani goffamente muovono avanti e indietro una piccola ruota “che ha la forma di una ruota di carro senza raggi, ma con un asse al centro”. Poi subentra  una pesante macina in pietra che gira, gira e suona di un suono mai udito finchè ne esce una polvere impalpabile e finissima, allora con un pennello delicatamente la si raccoglie e si setaccia. La fragranza che ne deriva è figlia di cimento, tecnica, arte. Solo alla fine la polvere verrà immersa nell’acqua bollente e frullata con vigore sino a creare una schiuma densissima sulla quale sarà possibile dipingere secondo l’arte del Chabaixi. “Il tè è un’opera d’arte e solo la mano di un maestro può renderne manifeste le qualità più nobili” scrive Kakuzo Okakura ne Lo Zen e la cerimonia del tè.

 

 

Infine è arrivato il tempo di bere, un tempo molto breve se si considera quello della preparazione: una manciata di secondi e l’opera d’arte effimera è lì ad emozionare intensamente chi ha la fortuna di nutrirsene. 

Il rientro, il pranzo frugale in una tavola calda cinese, di nuovo i treni, le diverse stazioni, la moltitudine di pendolari che si accalca, che occupa spazio e non cede nulla a chi si attarda.

Due i numi tutelari che mi accompagnano nel viaggio: il tè e poi la luna, quella sera finalmente piena.

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