My Sunny Maad, un film d’animazione di Michaela Pavlátová sull’Afghanistan post 2011

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Helena non può sorridere nel giorno del suo matrimonio: significherebbe mostrare trepidazione per la notte di nozze e questo desterebbe un vero scandalo. È il 2011, siamo a Kabul (Afghanistan) ed Helena, giovane studentessa ceca, si è appena trasferita in città perché innamorata di Nazir, incontrato fra i banchi universitari di Praga.

Con queste brevi premesse ha inizio My Sunny Maad, film d’animazione di Michaela Pavlátová, liberamente tratto dal romanzo Frišta della giornalista Petra Procházková, visto al Cinema Odeon il 28 aprile in occasione dell’Anteprima Future Film Festival, una serie di proiezioni ed eventi che stanno accompagnando gli spettatori fino alla prossima edizione di FFF (19-23 novembre 2023, Bologna – 24-26 novembre 2023, Modena).

Candidato come Miglior film d’animazione ai Golden Globes 2022 e trionfante al Premio César 2023, al Festival del Cinema di Annecy nel 2021 e alla 21esima edizione del Future Film Festival, My Sunny Maad è il racconto della vita a Kabul durante la fase di transizione socio-politica post talebana, vista attraverso le vicissitudini della nuova famiglia di Helena, composta – oltre che da lei e Nazir –  da un saggio e liberale nonno, dalla dolce suocera, dal figlio adottivo Maad, dalla cognata Freshta e dal marito Kaiz con i loro quattro figli (una ragazza adolescente e tre bambini).

Ad accompagnare lo spettatore è lo sguardo di Helena, che imprime alla narrazione un punto di vista fortemente femminile, mettendo in luce questioni relative al ruolo della donna nella cultura afghana, tra violenze, imposizioni e diritti negati: il film infatti, in questa occasione, è stato proiettato a sostegno di Lady Day 2023, progetto le cui attività sono volte alla sensibilizzazione attorno alla discriminazione e alla violenza di genere.

La giovane protagonista vive e osserva la realtà circostante attraverso un filtro neutro e privo di giudizio che – se da una parte è manifestazione del suo rispetto e fiducia nei confronti di un mondo a lei tanto estraneo, ma che da lì in avanti sarà la sua casa – dall’altra appare come una sorta di vivere passivo, a tratti addirittura remissivo e arrendevole. Tuttavia, nel corso della vicenda, tale atteggiamento si rivelerà essere soltanto un iniziale e legittimo spaesamento di Helena di fronte a un cambiamento radicale e repentino: in poco più di due mesi ha deciso di sposarsi, trasferirsi in un paese profondamente diverso dal suo e abbandonare tutta la propria vita, compreso il suo nome (dopo le nozze, infatti, diverrà Herra).

Al di là dell’indiscutibile amore, ricambiato, per Nazir, cos’altro si celi dietro a questa scelta è ammantato di un’aura di mistero: i brevissimi accenni al passato di Helena/Herra sembrano rimandare a una ferita rimossa dalla stessa protagonista, il cui sguardo ha sempre una punta di tristezza, sentimento reso esplicito in alcune rivelazioni. Tra queste, significativo è l’episodio della chiacchierata fra lei e la sua responsabile di lavoro, una giovane americana che, dopo averle chiesto più volte invano cosa l’avesse spinta a trasferirsi in un paese tanto complesso e come potesse tollerare certe violenze e imposizioni, finalmente Herra a un certo punto risponde: l’avevano messa in guardia, ma non aveva nulla da perdere a lasciare l’Europa, nemmeno una famiglia. A Kabul, inoltre, non era così complicato come poteva sembrare; anzi, dice, a ben vedere è tutto molto più semplice: «un popolo, un paese, una religione». Un’affermazione spiazzante per la sua intrinseca e perturbante verità, che resta sospesa e consegnata alle autonome riflessioni dello spettatore, così come molti altri momenti del racconto.

La storia si snoda lungo le tradizionali fasi della vita di coppia (innamoramento, fidanzamento, matrimonio, ricerca di avere un figlio, crisi, riequilibrio), da cui si diramano altri episodi con protagonisti i diversi membri della famiglia, portatori ciascuno di una diversa tematica. Ogni legame privato, vicenda personale e comportamento individuale mostra infatti il peso del contesto socio-culturale, mettendo in luce la radicale influenza della politica a livello relazionale e di pensiero del singolo. In tal senso, come accennato sopra in merito a Helena/Herra, tutti i personaggi presentano una complessità caratteriale e profondamente umana: Nazir è un uomo colto e aperto, che collabora con gli americani, è cresciuto in una Kabul più libera, ha vissuto in Europa e ne accoglie la cultura. Nonostante ciò, trovandosi a fare i conti con la società maschile e patriarcale di cui fa parte in quanto uomo, cade in contraddizione con se stesso, iniziando ad assecondare alcune rigide e assurde convinzioni. Arriverà infatti a scontrarsi con la stessa Herra che, nel frattempo, ha iniziato a reagire contro il sistema con piccoli e silenziosi atti di ribellione – come stare in una stanza sola con un uomo che non sia suo marito, rivolgergli la parola o accettare un passaggio in macchina – il tutto perlopiù per aiutare donne in difficoltà. Tra queste, la cognata Freshta, vittima di un marito ottuso e violento (Kaiz), che vorrebbe impedire alla figlia adolescente un’educazione e imporle un matrimonio combinato con un uomo adulto. La ragazza riuscirà ad andare a scuola grazie alla complicità di mamma, nonna e zia Herra, ma di fronte ai dettami paterni fuggirà per non farsi più trovare; un vero scandalo che condurrà il padre ad appellarsi alla legge per sottrarre alla moglie anche gli altri tre figli, in quanto ritenuta incapace di crescerli come la società richiede. Tuttavia Kaiz non è rappresentato come il cattivo della situazione, bensì come un’altra vittima di una politica che non tollera il libero pensiero e arbitrio: nel drammatico momento in cui porta via i figli alla moglie, appare infatti turbato, forse perché si è spinto troppo oltre, forse perché incapace di reagire a ciò che, nel profondo, riconosce come ingiusto e violento; forse perché l’amore per la sua famiglia è sincero – come accennano i genitori di Freshta ricordando il passato – ma ormai mutato dalle circostanze e irrimediabilmente macchiato.

Un raggio di luce nel buio del contesto lo porta il piccolo Maad, che vaga solo fra le strade di Kabul, cacciato dalla famiglia per il suo aspetto. Herra e Nazir, non riuscendo ad avere un figlio, adotteranno il ragazzino accogliendolo in casa, non senza iniziali remore dovute soprattutto ai suoi evidenti problemi di salute: è eccessivamente magro e calvo, i suoi muscoli sono atrofizzati. Sarà il nonno, in prima istanza, a prendere sotto la propria ala protettiva Maad, diminutivo di Mohammed (Maometto), il nome del profeta dell’Islam, letteralmente “degno di lode”. Il suo si rivela infatti un ruolo oracolare, una sorta di voce della verità, un salvatore – reietto – che ricerca e dispensa amore.

Una volta entrato a far parte della famiglia, Maad riesce a donare sorriso e leggerezza, ritrovando la sua voglia di giocare: indosserà il burqa, correndo per la terrazza contento di essere «finalmente invisibile». Lo spettatore si trova così di fronte a una scena la cui allegria viene smorzata da una patina drammatica, perché Maad, in fondo, prova davvero sollievo a non esser visto e a sentirsi finalmente “uguale” a qualcuno, rimarcando così il peso del sentirsi diverso, che è al tempo stesso la sua fortuna e la sua condanna.  Vengono così a galla, fra le righe, due scomode verità: l’intolleranza nei confronti di tutto ciò che è estraneo e la negazione della figura femminile come persona, obbligata a indossare il burqa in contesti pubblici in quanto alla mercé dell’uomo che ne detiene la proprietà come fosse un oggetto.

Condividendo con Helena/Herra la propensione alla cura, lo sguardo dell’outsider e la condizione dell’emarginato, Maad diventerà un suo saggio e furbo complice: starà infatti chiuso con le donne nell’armadio quando in casa arriva un ospite, aiuterà la cugina nella sua fuga e sosterrà la madre nei suoi piccoli atti di ribellione. La sua presenza costante, necessaria e silenziosa, lo rende un personaggio concreto e figura astratta al tempo stesso, metafora di amore e cura incondizionata anche di fronte all’irrazionalità del male umano. Maad si rivela davvero essere un sole capace di far luce nell’oscurità: il titolo, My Sunny Maad, è infatti significativo in tal senso, quasi fosse una sorta di invocazione, un invito a restare e non fuggire anche quando tutto sembra perduto; di non arrendersi ma continuare a resiste e lottare, esercitando cura e diffondendo amore. Una morale che può forse apparire semplicistica e banale, ma che, a ben guardare, al giorno d’oggi non è affatto scontata, nei frenetici e cinici tempi che attraversiamo.

My Sunny Maad – per la complessità narrativa e per la profondità psicologica dei personaggi – smentisce ogni pregiudizio nei confronti dei film d’animazione, spesso erroneamente connotati come prodotti dal contenuto semplice e adatti soltanto a un pubblico ristretto di appassionati. My Sunny Maad, invece, dimostra come proprio il disegno animato, unito a un racconto che non rinuncia alla complessità delle tematiche, possa avere un alto potere comunicativo, emozionale e, in questo caso, anche documentale. Il film infatti, con delicatezza e attenzione ai dettagli, riesce a restituire una vivida e precisa panoramica del contesto culturale e politico afghano in quei difficili anni, senza darne mai un giudizio, ma consegnando allo spettatore degli strumenti per poter leggere alcune questioni e farsi autonomamente un’opinione. È proprio il patto finzionale dato dal connubio disegno-verosimiglianza della storia, a rendere tutto questo possibile, andando a creare in sala una condizione di distacco e vicinanza al contempo: lo spettatore è così compartecipe della vicenda e occhio-mente esterno. Un’esperienza che accende l’emozione e stimola al pensiero critico.

 

Una parte degli incassi della biglietteria è servita a finanziare le “Borse Lavoro” di Lady Day per aiutare donne in difficoltà a uscire da una situazione di pericolo. Un progetto di Lilium Produzioni.