Una tempesta di Gianfranco Pedullà con i detenuti dell’Isola della Gorgona: il teatro che cura e lenisce con il perdono

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Se con ago e filo tessiamo l’Ulisse, simbolo di scoperta e solitudine, di viaggio dentro e fuori di sé, perduto per ritrovarsi, Le Metamorfosi, ovvero il cambiamento di status, la trasformazione, la rinascita, e La Tempesta, ovvero il cataclisma che tutto può azzerare, il perdono di sé e delle altrui azioni, allora avremo compreso quanto possa essere stato intenso il processo che il regista Gianfranco Pedullà ha ricamato e cucito addosso agli attori-detenuti dell’Isola della Gorgona in questi tre anni laboratoriali che hanno portato ad altrettanti spettacoli.

Già l’isola, come concetto ed essenza, si presta da una parte alla chiusura, circondata com’è dal mare che lì si infrange, e dall’altra, visto che ha la visuale libera a 360 gradi, la mente può spaziare in ogni direzione, sognare, immaginarsi altro e altrove.

Il terzo step è stato appunto Una tempesta da Shakespeare ricordando però la lezione di Strehler come la traduzione di Eduardo.

Una e non La tempesta perché qui si è ragionato, mantenendo fedele il testo con vari accorgimenti, tagli, adattamento e rilettura, senza toccare le autobiografie, su ciò che ha portato questi naufraghi in carcere, gli sbagli, gli errori ma anche la rinascita, la possibile redenzione, anche grazie al teatro, scontare la pena per diventare migliori, ripulirsi dalle colpe e infine pentirsi, chiedere aiuto, chiedere perdono per le azioni commesse, tornare cittadini, consapevoli che il Male è l’altra faccia del Bene e che a nessuno è preclusa la grazia, l’assoluzione e la clemenza se ha il cuore pulito e sgombro e non ha più pesi sulla coscienza, finalmente vergine e candida.

 

Gianfranco Pedullà

 

Si parte da Livorno sulla nave La Superba in direzione Gorgona per un’ora e un quarto di navigazione e onde lunghe.

Sull’isola, oltre agli agenti della Polizia Penitenziaria e l’ottantina di detenuti, ci sono pochi residenti che abitano nelle casette colorate (sono arancio, salmone, giallo, bianche, rosa, celeste, sembra di stare a Murano o Burano) che si affacciano sul porticciolo.

I detenuti lavorano tutto il giorno fuori, la loro condizione è molto diversa dalle celle e carceri sovraffollate di tutta Italia dove manca l’aria e lo spazio (nel ’22 i suicidi nelle nostre carceri sono stati 84, nel ’23 fino ad adesso 32); qui possono coltivare i campi o governare gli animali grazie ad una direzione da sempre illuminata.

E’ il carcere della Speranza e dove uno stralcio di un articolo della Costituzione al riguardo è bene vergato con la vernice appena si sbarca su questo grande scoglio verde dove in molti vengono per fare trekking.

In alto su un muro c’è scritto ben visibile in maiuscolo: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Questo è il benvenuto, il biglietto d’ingresso, il varco, la soglia per capire le dinamiche vigenti, l’idea di fondo di questo esperimento sociale che il teatro di Pedullà ha fatto conoscere in questo triennio (repliche a luglio e ad inizio settembre) a molti appassionati, cittadini, persone che hanno potuto tastare con mano il progetto.

 

 

Il teatro in carcere negli ultimi anni ha avuto i suoi baluardi: l’esperienza trentennale di Armando Punzo a Volterra (che gli è valso il Leone d’Oro alla Biennale Teatro di Venezia), ma anche tanti altri fuochi appassionati, lo stesso Pedullà nel carcere di Arezzo, come Livia Gionfrida nella Casa circondariale di Prato, come Stefano Tè in quello di Modena, come al cinema recentemente abbiamo potuto vedere Grazie ragazzi con Antonio Albanese o Il Re con Luca Zingaretti o ancora Aria ferma con Silvio Orlando e Tony Servillo.

C’è tutta una letteratura che si muove, poi c’è la pratica, le difficoltà nel lavorare quotidianamente da una parte, la gioia e la commozione degli spettatori che si imbarcano (questa volta letteralmente) per un’avventura di un giorno per riportare a casa sorrisi e lacrime, un’umanità nuova o rigenerata, una fiducia, un’apertura rinfrescata. Sperando che il progetto di Pedullà possa continuare per mostrare a molto altro pubblico ancora in futuro che è possibile scommettere sulle persone se si ha la pazienza (da parte di ogni componente in campo) dell’ascolto.

Non è certamente tutto rosa e fiori ma quello che abbiamo potuto constatare in questa giornata isolana è che il teatro fa bene come idea, come progetto, leggere, diventare altro diverso da sé, immedesimarsi in storie lontane, mettersi nei panni di qualcun altro, mettersi a nudo, rischiare il fallimento e infine prendere gli applausi.

Non vogliamo fare un’agiografia giustificatoria, una santificazione, ma qui si può vedere e toccare con mano che i metodi rieducativi possono fare molto e che la letteratura, la pagina scritta educa al rispetto, alla disciplina, all’ascolto dell’altrui tempo e spazio. Il teatro è fare le cose insieme, quel fare gruppo che rinsalda, avvicina, aiuta soprattutto quando dovrai passare anni confinato, chiuso, recintato.

 

 

Una tempesta si divide in tre momenti itineranti, l’approdo sull’isola al Porto, la salita fino alla Casa di Prospero dove si svolge tutto il dramma, il finale con il matrimonio sempre nel piccolo golfo tra la zattera galleggiante e le barche capovolte sulla riva.

In audio, tra le casse sistemate in punti strategici, gorgoglii di acque, uno sciaguattio continuo di onde, sciabordio di risacca a rievocare l’ondeggiare di scafi e chiglie. I gabbiani sono appollaiati sul pelo dell’acqua guardando Livorno e il mare aperto.

Tra attori (le attrici Chiara Migliorini e Anita Donzellotti) e detenuti, in tutto sono una ventina i ruoli in azione, ma questo è un lavoro composito e collettivo con l’aggiunta di musicisti (Francesco Giorgi, Pamela Cerchi), scenografa (Giovanna Mastantuoni), costumista (Veronica Di Pietrantonio) e aiutanti: l’unione fa la forza, isolarsi nella propria solitudine crea debolezza e fragilità.

Intensa, straniante, piena ed evocativa l’idea del regista (è direttore anche del Teatro delle Arti di Lastra a Signa e della compagnia Teatro Popolare d’Arte; nel 1996 mise in scena La tempesta da De Filippo) di suddividere, o meglio espandere e ampliare Ariel in tanti spiriti che si muovono all’unisono (capitanati dalla brava ed energetica Migliorini), con bracciali di cozze e conchiglie, quasi maracas o nacchere, a scandire ogni parola ritmata e passo di danza ancestrale e tribale di tammurriate cadenzate, come un unico corpo solo, come un branco, come un banco di pesci, coperti di reti da pesca.

 

 

E’ una tempesta che si sposta al Sud, tra i dialetti, le voci napoletane calde, cariche e ironiche ma anche calabresi ruvide o dell’Est europeo.

La nave si spezza, la nave si spacca non può che far pensare ai migranti africani che colano a picco nel Mediterraneo.

Ma questa è una caduta negli inferi, è un perdersi nei meandri della propria coscienza, è un oblio profondo, è un pozzo senza fine. L’isola come metafora, qui sulla Gorgona si fa reale, chiusura e miraggio, passaggio e trasporto, trampolino per la salvezza prima che del corpo dell’anima.

Prospero (grande carisma) è avvolto da un vestito colorato di lembi di stracci (pare un pezzo della Venere omonima di Pistoletto), mentre la figlia Miranda è in un bianco pulito.

Ariele è uno spettro, uno spirito fatto di tanti spiriti, un fantasma, un’essenza, un’anima in pena che soffre chiedendo la sua liberazione.

Muscoli e tatuaggi in bell’evidenza. Così come Calibano (i due personaggi hanno un qualcosa di viscerale di fondo che li accomuna al destino dei carcerati) nel quale percepiamo la dolcezza come l’animalità, la ruvidità come la continua richiesta di amore e attenzioni: l’attore (ha un che di Adriano Pappalardo) emerge per forza e spigliatezza, simpatia ed empatia, suona la batteria live con potenza e prestanza.

Tanti stralci shakespeariani sembrano scritti per questi ragazzi e uomini che qui dovranno scontare anni di sbarre: Se dalla mia prigione potessi una volta al giorno contemplare questa fanciulla, o Che strano riposo il nostro su quest’isola o ancora Siamo stati gettati su quest’isola per recitare un dramma, ancora Uomini del peccato precipitati su quest’isola perché indegni di vivere tra gli uomini.

 

 

C’è una osmosi precisa e perfetta tra il testo secolare e questa loro condizione di reclusione. L’isola diventa rene che filtra le sporcizie del mondo e restituisce dignità all’individuo finalmente depurato dalle malvagità e atrocità commesse.

L’isola è il karma che punisce e pulisce: A meno che non decidiate di pentirvi. Un pentimento che allevia il cuore.

Intanto sopra la testa ci passano gabbiani che sembrano piangere guardandoci dall’alto mentre loro stanno volando alti.

Spiccano anche i ruoli di Ferdinando lo sposo, come dei regnanti Gonzalo, Antonio, Sebastiano e Alonso che si lanciano in spassosi dialoghi, come di Stefano e Trinculo che si gettano nei momenti più divertenti e canzonatori ricordando Totò e Peppino.

Una bellissima esperienza che fa bene ai detenuti quanto al pubblico.

Il perdono fa bene a chi lo riceve come a chi lo dà.

E’ questa una grande lezione da portarsi dietro e dentro.

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[ foto di Alessandro Botticelli ]

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.