Coming out teatrale. Intervista a Bluestocking su Io che amo solo te, sorpresa di Colpi di Scena 2023

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ph Marcella Cistola e Simona Casadei

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Per la prima volta in Romagna, ospiti del Festival Colpi di Scena. Sguardo nel Contemporaneo a cura di Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione, lo scorso 27 settembre è andato in scena al Teatro San Luigi di Forlì lo spettacolo Io che amo solo te della Compagnia romana Bluestocking.

Ne abbiamo parlato con gli artefici: il regista, drammaturgo e interprete Alessandro Di Marco, la drammaturga Lucilla Lupaioli e gli interpreti Riccardo D’Alessandro e Andrea Lintozzi.

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A favore di chi non ha visto questo vostro lavoro: può ciascuno di voi sintetizzarlo in una riga (o al massimo due)?

ALESSANDRO

La storia semplice, e al tempo stesso straordinaria, di due ragazzi che scoprono improvvisamente di amarsi ma che devono scontrarsi con il giudizio, il conformismo, le paure.

LUCILLA

La storia di un amore (im)possibile.

RICCARDO

Un urgente messaggio di umanità, libertà e speranza.

ANDREA

Una storia vera d’amore. Una storia sull’amore vero.

Mi preme ora affrontare la questione del linguaggio, facendo una breve (e forse ovvia) premessa: la Storia dell’Arte, com’è noto, è storia delle forme, del come molto più che del cosa. Credo sia utile ricordarcelo, soprattutto ragionando di una creazione come la vostra dal tema così drammaticamente attuale. Se così non fosse, se ciò che dà valore fosse solo, ad esempio, una tematica esplicitamente impegnata dal punto di vista civile e sociale, uno spettacolino parrocchiale che parla di guerra varrebbe di più, come opera d’arte, di un quadro “astratto” di Vasilij Kandinskij, o un brano strappalacrime di un neomelodico napoletano sarebbe più importante (perché più “emozionante”) di una composizione dodecafonica di Arnold Schönberg. E invece. Partendo dal linguaggio verbale: come è nato il testo? Quali regole vi siete dati, nella sua composizione? E in che modo le prove e le successive repliche lo hanno fatto evolvere?

ALESSANDRO

Il testo è nato, come sempre accade, o dovrebbe accadere, dal bisogno urgente di raccontare una storia.

Una prima scena, concepita inizialmente come corto teatrale, è stata scritta oltre dieci anni fa.

Dopo averla vista interpretata, già in modo quasi perfetto, da Andrea Lintozzi e Riccardo D’Alessandro, io e Lucilla abbiamo deciso che questa storia meritava un respiro e un approfondimento maggiori.

Nella scrittura abbiamo cercato di riprodurre, in modo il più possibile fedele, il linguaggio di due adolescenti di oggi, di ricreare le loro dinamiche comunicative fatte di parole abbozzate, gesti, silenzi.

Ovviamente, nel corso delle repliche e delle prove, lo spettacolo è cresciuto, si è adattato ai due attori.

Perfino nelle ultime prove di settembre, prima della ripresa per Colpi di Scena a Forlì, ci siamo trovati a farci domande nuove su alcune battute, su alcuni passaggi, su alcune intenzioni.

È uno dei vantaggi di poter portare in scena più volte uno stesso lavoro: farlo crescere, lasciar decantare e sedimentare le domande e i pensieri negli autori, negli attori e nel regista.

LUCILLA

Quando scriviamo insieme, ma in generale lavorando insieme nei diversi ruoli che ci capita di avere all’interno della Compagnia – che non sono sempre gli stessi – ci interroghiamo ampiamente sul senso e sul bisogno di ciò che scriviamo, leggiamo, mettiamo in scena, partendo dalla necessità di raccontare una storia.

Anche quando il bisogno non è personale ma dell’altro, quel materiale umano diventa nostro, personale, proprio per la sana consuetudine o la comune pratica scenica che ci porta ad aprirci al “tema” dell’altro.

Questo testo è nato dalla scrittura di Alessandro di una singola scena che ha fatto eco dentro di noi e questa eco ha risuonato perfettamente quando l’abbiamo riconosciuta in Andrea e Riccardo.

Questo primo impulso ha generato le premesse per raccontare la storia che, secondo noi, aveva bisogno di essere raccontata.

Il testo si evolve costantemente perché il lavoro registico e attoriale e autoriale non viene mai dato per scontato.

C’è sempre un nuovo sguardo, sempre una nuova domanda che ristabilisce o approfondisce il valore delle parole, dei silenzi e della messa in scena.

 

ph Marcella Cistola e Simona Casadei

 

Dal punto di vista del linguaggio scenico: registicamente e attorialmente quali attenzioni richiede rendere senza posa tangibile, ancorché sempre mutevole, la linea di connessione tra i due interpreti principali?

ALESSANDRO

Mi sento molto fortunato a poter dirigere Riccardo e Andrea, che hanno saputo dare la vita e il cuore che immaginavo per i due personaggi di Niccolò e Valentino.

In tutto il periodo di prova abbiamo lavorato, con grande sinergia e armonia, con lo scopo di sviscerare tutte le dinamiche emotive alla base del loro rapporto, soprattutto di fronte alla scoperta inaspettata di un amore così travolgente.

Il testo è ricchissimo di silenzi, di pause, di un ritmo naturale, soprattutto pensando alle modalità comunicative dei ragazzi dell’età di Nicco e Vale.

Abbiamo cercato, con i due attori, il non detto dietro ogni silenzio, il bisogno di urlare e toccarsi in ogni pausa.

Il risultato, di cui sono veramente orgoglioso, è che i due attori, sulla scena, sono legati anche se apparentemente distanti, vicini di una vicinanza tangibile e struggente in ogni momento.

RICCARDO

Abbiamo lavorato molto intensamente per realizzare Io che amo solo te e per sviluppare quella chimica necessaria al fine di trovare una connessione autentica tra di noi.

L’ascolto, un’arma fondamentale per il nostro lavoro, ci ha permesso di registrare al meglio le battute e reagire all’azione.

Inoltre, grazie alla direzione di Alessandro, abbiamo cercato di vivere autenticamente le emozioni, i silenzi, i non detti… e abbiamo lavorato sul cuore, che è essenziale per l’impatto emotivo di quest’opera.

ANDREA

L’assoluto ascolto in scena -e nella vita in generale-, la voglia di capire e affrontare determinate situazioni e la tanta curiosità di osservare tutto, sempre.

Come spesso capita, tutti voi siete impegnati contemporaneamente in diversi progetti e collaborazioni. Quale peculiarità presenta Io che amo solo te, rispetto ad altre opere che vi vedono coinvolti?

ALESSANDRO

Diciamo che, pur portando avanti, come ovvio, diversi altri progetti, teniamo sempre un occhio aperto su Io che amo solo te, perché sentiamo che è uno spettacolo che ha ancora molto da dire e da raccogliere.

Dico spesso, forse in modo melenso, chissà, che Io che amo solo te è un po’ un figlio per me.

E i genitori orgogliosi cercano di mostrare il più possibile i loro figli.

C’è da dire che molti dei progetti a cui Bluestocking, di cui io e Lucilla Lupaioli siamo soci fondatori, si dedica, hanno uno sfondo sociale e si occupano di inclusione e rispetto delle differenze di ogni tipo.

Rispetto e inclusione sono valori ispiratori anche del Centro Studi Acting, la scuola di formazione per attori di Roma che Lucilla ha fondato e nella quale lavoriamo.

RICCARDO

Io che amo solo te è un progetto fondamentale per la mia carriera artistica.

È stato un lavoro di grande crescita umana e professionale.

Inoltre, visto che l’obiettivo del nostro lavoro è anche comunicare, rappresenta per me un impegno umano e sociale.

ANDREA

In Io che amo solo te c’è “solamente” l’essenza.

Dal titolo, alla messa in scena: siamo solo tre attori e un divano ma si raccontano tanti luoghi e tantissime persone.

Il linguaggio è essenzialmente quello parlato dai noi giovani, davvero.

Tutto quello che c’è, dialoghi e pause, sguardi e silenzi, sono essenziali.

 

Robert Mapplethorpe, The power of theatrical madness di Jan Fabre, 1985

 

La struggente scena di ballo sul brano di Sergio Endrigo che dà titolo al vostro spettacolo mi ha ricordato la celebre fotografia del 1985 di Robert Mapplethorpe di The power of theatrical madness di Jan Fabre. È per caso un’intenzionale citazione? E, più in generale, quali riferimenti nel vasto campo delle arti hanno nutrito questa creazione?

ALESSANDRO

Confesso che non conoscevo la foto di cui parli e sono grato che tu me la abbia fatta conoscere.

È bellissima!

La scena del ballo sulla cover di Io che amo solo te cantata da Fiorella Mannoia è nata da un’immagine che avevo nella mente, di due ragazzi che giocano a ballare “alla vecchia maniera”, su un pezzo musicale di altri tempi, e che mescolano, in quel momento, il divertimento scanzonato al romanticismo più caldo.

Se devo pensare ad opere che mi hanno influenzato nella scrittura e nella direzione dello spettacolo, non posso non pensare a Maurice di Forster, a Brockback Mountain di Ang Lee, alle musiche dei Placebo.

LUCILLA

La fotografia è bellissima e in effetti ricorda anche a me la scena del ballo, anche se non è stata una fonte d’ispirazione, non la conoscevo.

Credo che quello che ci ha influenzato maggiormente siano proprio le immagini involontariamente poetiche dei ragazzi fuori dalle scuole, quelle identità ancora in cerca di una collocazione, quei corpi vagamente goffi e sfumati, quel linguaggio spezzato in codici a volte impenetrabili con le loro storie d’amore strazianti e assolute, a volte solo immaginate e desiderate.

Anche se sicuramente in me c’è l’influenza della letteratura e cultura LGBQT+, con la quale sono cresciuta e che ha permeato molto del mio immaginario e del mio lavoro autoriale, io sono stata adolescente in una periferia che ho amato e odiato e i muretti graffitati, i baretti, i campi assolati, i portici infiniti, i ragazzi e le ragazze smarrite in questi luoghi così densi da sembrare astrazioni, questo più di tutto, mi ha guidato nella scrittura del testo.

Presentate questo spettacolo già da alcuni anni, e vi è capitato di proporlo anche a gruppi di ragazzi e ragazze. Qual è stata la reazione per voi più sorprendente?

ALESSANDRO

Abbiamo presentato delle repliche, allo Spazio Rossellini e al Teatro Flaiano di Roma, riservate espressamente ai ragazzi delle scuole superiori.

In altre occasioni, in altre repliche, erano presenti molti ragazzi.

Tutti hanno sempre avuto una reazione viva, mi viene da dire, accesa, vibrante.

Sono stato felice perché i ragazzi si sono resi conto che il teatro, che troppo spesso loro vedono come qualcosa di “pesante” e distante da loro, può parlare anche di loro, a loro.

Può parlare la loro lingua, raccontare le loro storie.

Ci sono ragazzi che sono tornati più volte, portando i loro amici, i loro genitori.

È stato davvero emozionante vederli commossi, partecipi, ascoltare le loro domande dopo la messa in scena.

Una cosa che ricordo in particolare: poco prima di iniziare una replica, il mio assistente, Guido Del Vento, che ringrazio sempre per la preziosa collaborazione, è venuto in camerino a dirmi che in fila al botteghino c’erano delle famiglie con bambini.

Abbiamo fatto presente alle famiglie, per correttezza e completezza di informazione, che nello spettacolo sarebbe stato usato un linguaggio forte, diretto, e che il tema era il bullismo omofobico.

I genitori hanno risposto che erano stati in teatro a vederci qualche giorno prima e che avevano deciso di tornare coi loro figli perché sentivano che proprio le giovani generazioni hanno bisogno di conoscere da vicino storie e realtà come quella che portiamo in scena.

È stato emozionante, e ho voluto incontrarli dopo la replica.

I bambini erano molto colpiti, ma ricordo il loro sguardo caldo e i loro complimenti sinceri.

LUCILLA

Non saprei specificare un singolo episodio ma certo mi colpisce e mi scalda la compassione, questo dolce “patire con” che li ha fatti sentire vicini, amorevoli verso i propri simili, i propri compagni, magari ignorati fino a quel momento.

Molte ragazze e ragazzi sono tornati più volte a vedere lo spettacolo, come se desiderassero questa catarsi, un momento di purificazione e di apertura.

Il desiderio di potersi riconoscere e di potersi “salvare”.

RICCARDO

Vedere l’emozione nei giovani spettatori ma soprattutto nei miei coetanei rappresenta per me un motivo di grande soddisfazione personale.

Tanti ragazzi in questi anni ci hanno visto e tanti ci hanno ringraziato con grande calore.

Spero davvero di poter replicare lo spettacolo in altri contesti simili.

ANDREA

Sono sempre tutti profondamente coinvolti.

Specialmente i ragazzi, anche se non tutti vogliono farlo vedere, si sentono toccati e responsabilizzati.

 

ph Marcella Cistola e Simona Casadei

 

Il vostro spettacolo, sia detto anche se si spoilera il finale, termina con il suicidio di uno dei due protagonisti, quello più vessato e fragile. Perché questa scelta e non, ad esempio, quella di testimoniare una possibile rivalsa, o affermazione di sé è della propria identità? Lo chiedo soprattutto pensando alle platee di ragazzi che incontrate e al valore testimoniale che ogni atto comunicativo, inevitabilmente, ha.

ALESSANDRO

Ovviamente è qualcosa a cui abbiamo pensato molto.

Credo che proprio le giovani generazioni abbiano bisogno di un’emozione forte per poter entrare in contatto reale con un problema.

Il rischio, conoscendo da vicino gli adolescenti e lavorando con loro ormai da molti anni, è che si rischi di far passare un messaggio per una “predica”, una sorta di morale buonista dalla quale, immagino, scapperebbero a gambe levate: proprio nel momento in cui la storia di Niccolò e Valentino finisce in quel modo, i ragazzi, i giovani spettatori ricevono, per contrasto, il messaggio di cosa sarebbe stato necessario fare e dire per evitare che le cose andassero a finire così.

LUCILLA

Come anticipavo in qualche modo nella risposta precedente, ci sembra che proprio questo finale possa dare compiutezza alla storia che raccontiamo e che questo epilogo sia di “insegnamento”: la compassione e la commozione aprono il cuore e permettono al pubblico di vedere oltre quello che Valentino non poteva vedere, possono amare questo amore assoluto ma anche vedere che la vita ha un progetto più ampio che include la possibilità di far maturare un sentimento, di sopravvivere a un rifiuto, a un isolamento, a un amore spezzato.

E di ricominciare e volare, chissà.

Infine, ancora a proposito di ricezione: ogni creazione coinvolge in maniera determinante, finanche co-autoriale, le persone che la fruiscono. Lo sguardo, si sa, crea il reale, e non solo lo accoglie. Un tema come quello da voi affrontato dà luogo, nell’esperienza di una persona guardante, a opere affatto diverse a seconda che essa sia, ad esempio, omosessuale o omofoba, conservatrice o progressista. Come percorrete, ciascuno a partire dalla propria funzione scenica, la linea sottile tra testimoniare una propria visione del mondo attraverso un racconto e lasciar al contempo libera ogni persona di ricevere il sistema di segni messo in campo? Detto altrimenti: come si evita di far prediche e morali, pur dicendo forte e chiaro qualche cosa?

ALESSANDRO

A rischio di sembrare banale e scontato, ma il solo modo per evitarlo è dire qualcosa che si sente profondamente dentro, che si ha l’urgenza di raccontare.

E dirla, a mio parere, nel modo più semplice e immediato possibile, senza ammiccare al pubblico, rischiando, semmai, le critiche.

LUCILLA

Questa è proprio una sorta di “linea guida” per noi: non cercare in alcun modo e non volere dare una lecture morale.

La storia e le storie devono parlare per sé, essere uno specchio.

Nel rileggere, rivedere, mettere in prova lo spettacolo, cerchiamo di stare aperti ed evitare il rischio “pedagogico”, letterale, esplicativo – e non mi riferisco ad un’etica, ovviamente, che attiene al campo del reciproco rispetto, alla quale prestiamo fede assolutamente.

Fermo restando che, un obiettivo fondamentale per noi è raccontare storie che possano aprire il cuore, che possano riflettere l’altro e quindi la sua interezza, la sua umanità, senza giudicare o colpevolizzare, consapevoli della bellezza dell’essere umano e delle sfumature delle umane debolezze, frustrazioni e paure.

RICCARDO

Io che amo solo te è uno spettacolo urgente!

Nicco e Vale rappresentano la complessità dell’animo umano, ciò significa che i personaggi non sono semplicemente buoni o cattivi, ma sfaccettati, con pregi e difetti.

Non credo che il testo abbia la pretesa di fornire risposte definitive piuttosto si vuole far riflettere, a cuore aperto, sulla tematica presentata.

Ci concentriamo sull’atto di mostrare, non di imporre.

Soprattutto perché le scene dello spettacolo sono purtroppo ancora reali nella nostra epoca.

Cerchiamo di far emergere l’umanità dei personaggi in modo che il pubblico possa empatizzare con loro, anche se non condivide completamente le loro opinioni o prospettive.

In fondo si parla di amore, che è l’emozione più complessa e potente che l’uomo possa provare.

ANDREA

Facendo vedere realmente quello che accade o quello che potrebbe tranquillamente accadere nella vita di tutti i giorni.

Ieri, oggi e domani.

Senza dire freddamente e col dito puntato “questo non va fatto”.

Lo rappresentiamo come dato di fatto.

E la gente lo riconosce.

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