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La domanda è annosa e senza soluzione: quando si affronta un classico si deve (si può) metterlo in scena con tocchi di contemporaneità, pur lasciando fedele il testo, o è bene riprodurlo filologicamente, con costumi e scene d’epoca? La risposta, ovviamente, è personale, e attiene alla libertà registica. Ma è utile riportare sul palcoscenico Moliere, Pirandello, Shakespeare o, appunto Cechov, senza trovate sperimentali, senza guizzi attualizzanti, senza scarti lessicali e linguistici e semantici che ci possano far sentire il classico più vicino temporalmente? Il classico è universale per le parole, il testo, le tematiche, la drammaturgia che parla a ieri come ad oggi, tocca l’umanità a prescindere dal tempo in cui quelle parole sono dette e ascoltate ma, detto questo e dato per assodato, qualche accorgimento stilistico e formale per avvicinare i differenti tempi, quello della scrittura e quello della visione (soprattutto per le giovani generazioni), forse sarebbe auspicabile per trovare un sapore più contemporaneo, più vivo, meno museale e da teca. Perché spesso è la forma ad essere stantia e polverosa e non fa arrivare la potenza delle parole. Questa la domanda e la riflessione scaturita da Le tre sorelle cechoviane (oltre 2h 30′ ma scorrevoli e godibili) a cura della Compagnia del Sole di Bari, per la regia di Marinella Anaclerio, terzo passaggio del gruppo dopo il Miles di Plauto e Il Giuocatore di Goldoni: costumi ottocenteschi, fedeltà testuale ineccepibile.
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Abbiamo scovato due particolari dettagli fonte di aperture, considerazioni e ragionamenti. Nella locandina la parola tre è traslata in numero, un simbolo che ricorda moltissimo alcune parti dell’Om buddista, ovvero il Sushupti che indica uno dei quattro stati della coscienza e si riferisce a uno stato di sonno profondo, quando la mente cessa ogni attività e il Jagrat che simboleggia lo stato di sveglia, quello che le persone provano quando non dormono. Non crediamo che l’intuizione sia casuale: qui i personaggi vivono, o meglio perdono il loro tempo in una condizione di stallo permanente senza agire rimanendo passivi di fronte al mondo esterno, e la sveglia è quella che devono subire proprio perché sono stati silenti e immobili per troppo tempo, che arriva come una doccia fredda e verso la quale non possono ormai prendere nessuna controffensiva né difesa, ne vengono solamente travolti e schiacciati senza alcuna possibilità di ribellione né rivalsa. Altro elemento preponderante e centrale, che ha catalizzato la nostra attenzione, è questo gigantesco pannello (le scene sono del Maestro Pino Pipoli) che ruota attorno ad un grosso perno facendo da fondale, ricordandoci adesso la banderuola che sui comignoli sui tetti si muove ad ogni soffio di vento (come fanno questi personaggi cercando il loro posto al sole), che pare un letto messo per verticale (di questo sonno infinito dal quale non si destano), sembra adesso una cover di un cellulare (tornando ai giovani e al loro linguaggio e immaginario), oppure, ultima suggestione, la targhetta sopra le lapidi dove si nota il riguardo vuoto dove apporre la fotografia del defunto (la morte che li attanaglia). In sottofondo, in più scene, gli uccellini cinguettano e, come ci suggerisce la locandina foriera di idee, i volatili in gabbia ne vorrebbero terribilmente uscire mentre quelli fuori vorrebbero con tutte le forze entrarvi, alla ricerca i primi della libertà i secondi di un accasamento comodo.
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Importante la scelta delle musiche che spazia da Chopin a Ravel, dal canto popolare russo Oci Ciornie fino a Nothing else matters dei Metallica. Le tre sorelle hanno colori che le caratterizzano: Mascia è in nero (Antonella Ruggiero), Olga in blu (Stella Addario), Irina in bianco (Ornella Lorenzano). La loro parabola è triste e dimessa, aspettano che la felicità venga a bussare alla loro porta senza spostarsi dalla loro comfort zone, dal loro salotto. Il fratello Andrej (Loris Leoci) invece cerca la felicità con un matrimonio che lo affosserà, con l’alcool che lo stordisce, con il gioco d’azzardo che lo getterà nella disperazione. La ricerca ossessiva della felicità crea magoni e buchi neri, vortici d’abisso e depressione tra formalità, risate finte e isteriche, futilità per nascondere fragilità e ammantare la noia, piccole ambizioni subito abortite per la possibile temuta fatica per raggiungerle. La felicità è la Mosca tanto agognata e tanto celebrata e tanto pronunciata, una città che diventa simbolo di cambiamento ma nessuno fa niente per guadagnarsela, per meritarsela, per ottenerla. Nel vuoto generale, delle relazioni, dei sentimenti, è l’insoddisfazione a regnare sovrana, a riempire ogni angolo della casa-sarcofago tombale, è la stanchezza che li fiacca tutti, sospesi tra la nostalgia di qualcosa che non hanno vissuto e il sogno di un domani diverso senza mettere in atto nessuna azione per invertire il corso delle cose. Il mal di vivere e l’impossibilità blocca qualsiasi loro iniziativa, impantanati tra la paura della morte e la paura della vita; e quindi attendono non sanno neanche loro che cosa, quindi aspettano la manna dal cielo, la panacea di tutti i mali che arrivi a portare questa fantomatica felicità che nessuno di loro sa che sembianze possa avere. Da sottolineare le prove attoriali di Antonella Ruggiero (una Mascia carica che non cede al melodramma), Flavio Albanese (il tenente colonnello, piglio e sfrontatezza), Luigi Moretti (il medico, voce e postura solenni), Marco Bellocchio (il vecchio cameriere, umanità e nessun tentennamento), Patrizia Labianca (Natalia, moglie di Andrej, figura altamente odiabile, l’unica forse felice, anche se tristemente, perché raggiunge i suoi scaltri e meschini obbiettivi).
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Smaniano e ambiscono al volo degli uccelli migratori, quello che non saranno mai, crogiolandosi dentro un fango amniotico caldo e rassicurante delle lamentazioni: La felicità non esiste, noi possiamo soltanto desiderarla, tra senso perenne di inadeguatezza, timidezze, liti, malanni, sciocchezze salottiere lanciate nell’agorà tanto per creare fazioni, alleanze, tradimenti. Mi pare solo di camminare, dormire, mangiare, è il loro mantra che non trova un senso all’esistenza, ai giorni passati uguali ai futuri. E gli oggetti si rompono come sono rotte dentro le persone che non riescono a ritrovarsi né a perdonarsi né a volersi bene. E’ lo squallore a dominare la scena tra tensioni e piagnistei, vivendo costantemente nel futuro non vivono il presente, senza voler vedere la realtà, andando avanti impotenti con i paraocchi: Dove sono le nostre speranze? Vogliono dimenticarsi del tempo perduto che nessuno gli ridarà mai indietro, le occasioni non colte, i treni sui quali non sono saliti. Sono arrivati al punto di odiare tutto, disprezzando tutti, finiti nell’imbuto dell’oblio, nel cul de sac di un precipizio nero, nella dissoluzione di qualsiasi affetto, rancorosi hanno perso la tenerezza, senza più stima né fiducia in primis verso se stessi, immersi nell’inquietudine che morde le caviglie costruiscono castelli in aria immaginando desideri di fughe. Sono foglie secche nell’autunno irrimediabile delle loro esistenze, perdenti e sconfitti perché non hanno osato, perché non hanno veramente tentato di essere felici, tra ozi e bugie si sono ingrigiti, sono diventati pigri, inutili, senza speranza, parassiti, dead man walking, cadaveri sofferenti di superficialità. Cechov, che nella sua vita di sofferenze ne ha patite, sa sempre come stimolarci per non finire delusi, sconfortati e amareggiati come i suoi antieroi tratteggiati con dolce brutalità, feroce pietas ed estrema compassione.
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Grazie per la profonda e puntualissima analisi! Leggerla mi restituisce energia!
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