Alimentare un fuoco. Su Letizia va alla guerra di Agnese Fallongo e Tiziano Caputo

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ph Manuela Giusto

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«Alimentare un fuoco è una cosa bellissima. Esige continuità, tempo e memoria»: ero sul divano di casa, poco fa, a fianco a me la mia cagnolina Emma che si godeva qualche grattatina extra. Stavo leggendo Erba della mia erba, resoconto di vita della teologa, scrittrice ed eremita Adriana Zarri (in Un eremo non è un guscio di lumaca, pubblicato da Einaudi nel 2011) ed ecco spuntare questo passaggio, perfettamente sintetico dello spettacolo Letizia va alla guerra di Agnese Fallongo e Tiziano Caputo, visto al Teatro Piccolo di Forlì mercoledì 13 dicembre.

«Alimentare un fuoco è una cosa bellissima. Esige continuità, tempo e memoria»: piena sintonia, mi pare, con l’attitudine concreta e concretamente relazionale del far teatro di questo duo commovente, che non conoscevo e che la proposta culturale di Accademia Perduta / Romagna Teatri mi ha fatto incontrare.

Commovente: che, letteralmente, ci fa muovere insieme.

E lo fa attraverso un artigianato teatrale che esige continuità, tempo e memoria.

Lavoro, lavoro e ancora lavoro (ancorché probabilmente gioioso) han certo richiesto le tre figure femminili (sposa, puttana e suora, per usare le parole del sottotitolo) che Agnese Fallongo incarna e che abitano una scena popolata di altre fugaci maschere che, in dialogo creativo -finanche creaturale, si potrebbe azzardare- con Tiziano Caputo appaiono davanti ai nostri occhi.

Non vi è alcun nascondimento, né sottrazione concettuale, nel dispositivo scenico che è offerto al nostro sguardo: tutto è a vista.

Non per questo si esce dalla fabula in cui lo spettacolo fin da subito ci immerge: ciò è possibile grazie alle esattissime variazioni ritmiche e toniche di questi due corpi-teatro che, con precisi scarti di voce, postura, direzione o posizione nello spazio creano mondi.

Alternanza di narrazione e interpretazione, a dar corpo a una drammaturgia inspessita da alcuni millimetrici rimandi interni tra le sezioni. Storie individuali che ci fanno affacciare su una Storia collettiva. E il reiterato attingere al repertorio vocale e musicale popolare, sacro e profano, così come a un immaginario intriso di archetipi (in primis, l’amore): tutto fa ricordare, riveduto e corretto, ciò che Leo de Berardinis chiamava teatro popolare e di ricerca.

Lo spettacolo si apre con la canzone popolare siciliana Mi votu e mi rivotu (portata al successo da Rosa Balestrieri e molti anni dopo interpretata, tra gli altri, da Carmen Consoli e Mario Venuti).

Forte fisicità e fonda vocalità à la Cristina Vetrone, lei; duttilità vocale e snellezza malinconica e ilare à la Buster Keaton, lui, a dar luogo fin da subito a una prassi e a un’estetica antiche e solide, intrise di ritmici dialettismi e sentimenti incarnati che ricordano certo teatro di Emma Dante.

Ci mette occhi negli occhi, Agnese Fallongo, in apertura: e non ci lascia più.

Sembra anche un po’ malata (un forte raffreddore, forse), ma come si usa nelle Compagnie di giro, in scena ci si va, e con «gli angoli della bocca sempre in su, nonostante tutto».

Vedere questo spettacolo è un po’ come guardare due bravi falegnami all’opera.

Non nascondono nulla del loro fare, anzi: un po’ anche amano farcelo vedere, quante cose san fare.

E si prendono il tempo che serve: un’ora e mezza, questo Letizia (durata inusuale, in un panorama in cui, ahinoi, con studi e prove aperte di 20 minuti ci si confezionano Stagioni e Festival interi).

Alla fine, la sensazione è quella di aver sbirciato la costruzione di un tavolo, o di due sedie, o di un attrezzo da usare in campagna: cose antiche, che sanno di buono.

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