L’arte della domanda. Su Maternità di Fanny & Alexander

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ph Asia Ludovica Serpe

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«Gli spettacoli, più che risposte, sono domande»: così Chiara Lagani in apertura di una riflessione su Maternità, nuova creazione di Fanny & Alexander che ho visto il 12 dicembre al Teatro Rasi di Ravenna nell’ambito di Fèsta 2023 e che sarà in scena al Teatro India di Roma venerdì 22 dicembre per Teatri di Vetro (e ancora a Roma, ma all’Angelo Mai, il 13 e 14 aprile, nonché in diverse altre città in una tournée che si sta definendo).

Le fa eco, per così dire, Francesca De Sanctis in chiusura della sua recensione su L’Espresso dell’8 dicembre: «Te ne vai con una domanda che ti frulla per la testa: è la vita che ti sceglie o sei tu a scegliere? Insomma, siamo davvero liberi o no?».

Tra le riflessioni di queste due donne valorose metto i miei two cents: teatro come arte della domanda.

 

ph Asia Ludovica Serpe

 

Sideralmente distante da ogni veicolazione di univoci messaggi, o tanto peggio di qualsivoglia predicazione, Maternità interpella senza posa i presenti sulla scelta della protagonista a proposito del diventare o meno madre.

Piccoli telecomandi sono dati alle persone, le cui sedute perimetrano lo spazio scenico, per rispondere in maniera chiusa (sì/no, oppure scegliendo fra 3 o 4 opzioni) a una raffica di domande più o meno strettamente pertinenti all’oggetto: questo il contenuto referenziale.

Ma giacché la storia dell’arte è, si sa, storia del come, prima e più che del cosa, vorrei ora guardare a ciò che linguisticamente accade, in questo dispositivo scenico.

E vorrei farlo evocando le polarità freddo-caldo mutuate da Marshall McLuhan. Vale forse ricordare che per il sociologo e filosofo canadese freddi sono i medium a bassa definizione (che richiedono cioè un’alta partecipazione dell’utente per riempire, completare le informazioni non trasmesse), mentre caldi sono quelli caratterizzati da un’alta definizione e di conseguenza da una minor partecipazione necessaria affinché l’atto comunicativo possa compiersi.

In Maternità la partecipazione è certo necessaria affinché «il congegno abbia gioco», per dirla con Andrea Zanzotto: la fabula prende strade diverse a seconda di ciò che le spettatrici e gli spettatori presenti votano di volta in volta.

Vi è dunque, un affidarsi al caso, ancorché entro un alveo delimitato: come non pensare a John Cage e Merce Cunningham e al loro consegnare all’I Ching (così come fa la protagonista del racconto di Sheila Heiti da cui lo spettacolo prende linfa) la composizione di certi loro accadimenti performativi?

A proposito di Merce Cunningham: riprendendo per un attimo l’opinabile contrapposizione con Pina Bausch sostenuta da alcuni storici della danza (forma vs contenuto, astrazione vs narrazione, gelo vs calore, eccetera) vien da pensare a come questo spettacolo, similmente ad altri progetti per la scena di Fanny & Alexander, persegua una via altra.

 

ph Asia Ludovica Serpe

 

In millimetrico equilibrio tra pulizia formale e distacco, nettezza dei segni e loro tagliente affilatura, qui -a volerlo vedere- si è chiamatə in causa a molti livelli.

Se si è donne forse anche per rispecchiamento tematico ed eventualmente autobiografico.

Se si è uomini (ah, quanto son d’accordo con il regista Luigi De Angelis là dove afferma che su questi temi dovrebbero legiferare -forse finanche prender parola, aggiungo io- solo le donne) comunque come soggetti e oggetti di linguaggio.

L’incedere ritmicamente incalzante delle domande obbliga a scelte repentine, e ciò porta ad accorgersi di dar voce spesso a triti luoghi comuni, di esser parlati più che parlare: con minimale ferocia Maternità ci consegna alla responsabilità smisurata del prender parola (Foucault docet) su ciò di cui poco o nulla si sa e su cui sarebbe necessario tacere, ascoltare.

La premura che argutamente è imposta rende grottescamente straniante votare su questioni tanto intime quanto delicate: ci si ritrova, d’improvviso, leonesse e leoni da tastiera, che dicon la propria su tutto, senza nulla sapere.

Questioni legate alla genitorialità, certo, ma anche ai rapporti tra umani e riflessioni linguistiche sul medium che si sta condividendo, il teatro appunto, con il suo inevitabilmente accordato patto di riconoscimento e trasduzione soggettiva del sempre mobile rapporto tra finzione e realtà.

Soggettiva: questa è forse la parola che mi son portato a casa da Ravenna, dopo aver incontrato questo piccolo, geometrico esempio di un’idea e una prassi di arte come inquieta e inquietante attivazione psico-emotiva di chi la fruisce.

Uso qui l’aggettivo geometrico per evocare, di Maternità, l’organizzazione dello spazio scenico e l’articolazione della drammaturgia luminosa, ma anche la disorientante misurazione del luogo in cui si sta, si dice la propria, si fan capriole.

Son capriole di e in ciascunə, quelle che (non) ho visto accadere.

Essere radicalmente soli in un rito che non può che dirsi collettivo, una temporanea comunità di corpi che insieme circondano un vuoto vertiginoso e insieme lo fanno esistere, guidati da un’attrice in bilico tra la Marion de Il cielo sopra Berlino e un’istitutrice svizzera: non Cunningham vs Bausch, piuttosto Cunningham e Bausch.

Il teatro, qui, si configura come danza di parole e pensiero nello spazio condiviso. E la scrittura (drammaturgica, registica, luminosa, sonora, eccetera) ne è coreografia.

 

ph Asia Ludovica Serpe

 

E andarsene con una domanda, diceva Francesca De Sanctis.

Senza morali, messaggi, né soluzioni edificanti.

Piuttosto -e che preziosa fortuna, specialmente in questo tempo in cui con un cellulare in mano ci illudiamo di poter sapere all’istante qualsiasi cosa- con la vertigine di esserci per un attimo affacciati sul bailamme furibondo delle altrui alterità attraverso un dispositivo precisissimo.

È una curiosa capriola: bisogna saperla fare, bisogna volerla fare.

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