Saturno figlio di Anarchia, uno spettacolo che si fa centro

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Luigi Dadina - ph Nias Zavatta

È inverno e, anziché la neve, fioccano gli eventi, tanto che spesso mi trovo a dover scegliere cosa andare a vedere, non potendo essere dappertutto.
Per farlo, sempre più spesso rifletto su centri e margini.

La parola “centro” oggi è molto usata. Identifica centri storici, centri commerciali, centri da riqualificare o da far brillare, centri di produzione, centri culturali. Sono i luoghi dove la gente accorre per vedere lo spettacolo delle luci, dei colori, dei grandi allestimenti. Questi spettacoli sono molto spesso vuoti o quantomeno ripetitivi. È facile trovare nei cartelloni sempre gli stessi nomi, sui banchi del mercato sempre gli stessi prodotti e a livello culturale sempre gli stessi temi e contenuti, quelli che vanno “di moda”.

Ecco perché sento di avere sempre meno interesse verso questi “centri” e mi trovo più attratto dalle periferie, o meglio, dai margini. Luoghi nei quali la cultura è frutto di esperienza e ricerca, in relazione diretta con lo spazio in cui prende vita. Qui nascono spesso tentativi di recuperare luoghi dimenticati o abbandonati, ed è possibile farlo tramite un recupero del “noi” in rapporto con quel luogo o spazio.

Una realtà che opera in questo senso e direzione è il Teatro delle Albe. Faccio riferimento soprattutto a due dei loro lavori più recenti che sono Mantiq At-Tayr – il Verbo degli Uccelli, realizzato al Cisim di Lido Adriano, e lo spettacolo Saturno figlio di Anarchia, che ha debuttato da poco al Teatro Socjale di Piangipane e sul quale spenderò ora qualche parola.

 

immagine di Davide Reviati

 

Il Saturno del titolo è Saturno “Nino” Carnoli, intellettuale ravennate rimasto vittima della prima epidemia di Covid19. Il testo, nato da una richiesta della sua compagna, racconta la figura di quest’uomo, parte attiva del tessuto sociale di Ravenna, ben conosciuto anche da Cesare Albertano e Luigi Dadina, autori dello spettacolo.

In scena c’è Dadina, seduto di fianco a un tavolo.
Dietro al tavolo, Paolo Baldini suona uno strumento a corde, dispone bicchieri e bottiglie e soprattutto ascolta.
Di fianco a loro un cavalletto ospita le tavole di Davide Reviati che raffigurano Saturno, la sua compagna, un momento in barca e altri episodi. Ogni tavola viene svelata in corrispondenza di un quadro, che affronta un particolare momento nella vita di Saturno, andando in ordine emotivo-tematico e non cronologico. Dunque saltando dalla nascita, ai discorsi al pub Barnum, poi avanti fino al momento della morte, e di nuovo indietro al ‘68 e all’esperienza alla scuola Albe Steiner (chiamata da Nino “Bestaine”) raccontata con un dialogo di burattini.

Niente di straordinario, anzi tutto ordinario e semplice, come in un racconto informale ascoltato all’osteria. Anche perché lo spazio scenico non è il palco, ma la platea. Il pubblico è disposto a cerchio e ci si guarda in faccia nella penombra mentre si ascolta il racconto dell’attore, posizionato su un punto della circonferenza.

Ovviamente dove c’è un cerchio c’è un centro e al centro di questo cerchio c’è un mazzo di rose, rosse e silenziose ma presenti, visibili, percepibili.

Una geometria che richiama la riflessione su centri e margini. Al centro qualcosa da guardare, di cui avere cura e ai margini un “noi” che è messo in relazione da quello che al centro si custodisce.

Come dice Pëtr Grigor’evič Bogatyrëv nella sua Semiotica del teatro popolare, spostare l’attore e farlo scendere in platea vuol dire rivoluzionare gli spazi convenzionali del teatro classico, come si è codificato negli ultimi secoli, e appianare la distanza tra attori e pubblico. Si crea una condivisione di significati, caratteristica del teatro popolare che chiama il pubblico a intervenire nell’accadimento scenico.

 

immagine di Davide Reviati

 

A ben pensarci tutto questo ricorda un po’ un’assemblea.

Come se fosse un compianto funebre, un’elegia, un ricordo.
Forse il rivolgersi con la memoria a persone scomparse implica contesti ereditari, rituali, corali, chiama la collettività alla costruzione di un’immagine-ricordo che serva alla comunità stessa, costruendo un archivio che Josè Saramago, nel romanzo Tutti i nomi, definisce “il presente di tutti”.

Il carattere dell’assemblea emerge anche dal testo, che fa parlare tanti personaggi, quasi a volerli coinvolgere in un dibattito. Alcuni sono amici di Saturno, e intervengono, discutono con lui, altri sono poeti e scrittori (vengono citati Pasolini e Levi, si leggono poesie di Herman Hesse e Marino Moretti) estrapolati dalla biblioteca stessa di Nino.

Così quadro dopo quadro si parla di un uomo, Nino, e della sua indagine personale, intellettuale, artistica.
Ma si parla anche di lotte generazionali, di rivoluzioni (politiche e artistico-culturali), di ricerca di identità.

Il tutto nel mondo piccolo della città di Ravenna che “crede di essere di terra e invece è di mare”. Città-paese che rispecchia centinaia, se non migliaia, di simili microcosmi in cui è possibile coltivare una cultura viva. Margini in cui costruire un’identità propria partendo dall’orizzonte del luogo e di chi lo abita, se si ha la volontà di allontanarsi dai centri inutili e brillanti e di cercare quelli vivi e veri.

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