È tutta questione di relazioni: Picasso, Rodin e Martin Parr al Mudec di Milano

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Martin Parr - La torre pendente - Italia, Pisa, 1990 - Da “Small World” - © Martin Parr/Magnum Photos

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Una triplice buona occasione per ricordare che ogni significativa creazione umana è frutto e scaturigine di relazioni è offerta, in queste settimane, dal Museo delle Culture di Milano.

Culture: plurale fenomenologicamente salutare.

L’arte è sempre avventura del noi: almeno di una persona che crea e di un’altra che, ricevendola, fa esistere l’opera.

Ma in realtà -e il Mudec lo manifesta con ricca esattezza- gli elementi in campo sono ben di più.

 

Martin Parr, Banchetto inaugurale del sindaco di Todmorden Inghilterra, West Yorkshire, Todmorden, 1977 – Da “The Non-Conformists” – © Martin Parr/Magnum Photos

 

«Ho la sensazione che a raccontare storie tristi e deprimenti nessuno ti darebbe retta. Ecco perché le mie fotografie sono allegre e colorate e, spero, accessibili, perché voglio fare partecipare lo spettatore, non voglio annoiarlo…»: provoca in direzione iper-pop, la celebrity londinese Martin Parr, in una mostra che certo noiosa non è.

Iper-colorata e cinica, sconsolata e divertente, sintetica ed enciclopedica, mette al centro (e alla berlina) usi e costumi -è proprio il caso di dire, essendo il suo uno sguardo che si posa pervicacemente sulle superfici- di un’umanità bolsa e un po’ imbruttita, nazionalpopolare e kitsch.

«L’esperienza del pop ha accostato (a volte sostituendola) creatività a campionamento dell’esistente isolando gesti, parole e immagini dal loro habitat originario»: lo scriveva, nel 2018, un raffinato storico dell’arte veronese, Simone Azzoni, in un volumetto dal titolo divertente e dal contenuto illuminante: Lo sguardo della gallina, Lazy Dog Press, 2018.

Parlava d’altro, di kitsch, appunto, ma mi sembra porre al centro la questione della (s)composizione e soprattutto dello sguardo, in una prassi dell’attenzione sottile che distingue l’artista dal non artista, che ritrovo nel lavoro di Martin Parr.

Arte come espressione non di téchne ma di un’attitudine all’accorgersi, dunque.

«La poesia è un dono fatto agli attenti» diceva Paul Celan, uomo saggio.

Relazioni significanti, si diceva.

Dal punto di vista tematico, certo.

Ma anche dal punto di vista compositivo, sia nella prospettiva interna alle opere (un esempio fra molti, a mo’ di sineddoche, la celebre immagine scattata nel 1990 nei pressi della Torre di Pisa, con molti turisti intenti al gioco fotografico di sostenerne la pendenza che un semplice diverso posizionamento rispetto ai soggetti coinvolti rende immediatamente vano) sia nelle opere tra loro (l’esempio più lampante è costituito da molte decine di immagini giustapposte, nella sezione Common Sense: stampate su carta dozzinale e affastellate in due pareti ad angolo costituiscono una ridda di stimoli multiformi, un atlante in cui perdersi o, meglio, in cui ricostruire personali relazioni di senso a partire dalla propria esperienza percettiva ed eventualmente biografica).

La mostra al Mudec è stata curata dallo stesso Martin Parr. Visitarla insieme a una umanità proteiforme e pittoresca, quale quella che, a ben guardare, non possiamo che incarnare stando insieme, mi ha fatto immaginare lo stesso fotografo, alle nostre spalle, ritrarci di nascosto, sornione e divertito: immagine nell’immagine, opera sull’opera, altra occasione per «guardarsi guardare», direbbe Merleau-Ponty.

 

Pablo Picasso, Volto di profilo (Visage de profil sur fond dégradé), 1929, Olio su tela – Collezione privata – © Succession Picasso, by SIAE 2024

 

Di relazioni significanti con la storia dell’arte e della cultura è intrisa anche l’esposizione dedicata a Pablo Picasso e, mediante le reciproche influenze con le arti etniche e tribali, alla metamorfosi della figura.

Vi è anche un affondo processuale sulla creazione di una delle sue opere seminali, Les Demoiselles d’Avignon del 1907, con l’esposizione di numerosi quaderni di schizzi preparatori.

Attitudine analitica anche nel porre in evidenza le relazioni tra gli elementi della medesima figura (esemplarmente limpida, in tal senso, è la scomposizione degli elementi in Volto di profilo, 1929).

La mostra mianese dedicata a Picasso porta a evidenza, inoltre, le numerose affinità con l’interesse che la società artistica coeva nutriva per le culture altre.

 

Loïe Fuller mentre danza, 1900 circa – Parigi, Musée Rodin © musée Rodin

 

È in tal senso organicamente coesa la terza mostra in corso, a cui desidero almeno accennare, dedicata alle molte relazioni tra Rodin e la danza.

Esse sono scandagliate dal punto di vista delle creazioni artistiche in senso proprio, delle stimolazioni etnografiche che ne sono alla base e delle danzatrici e coreografe, coeve o successive, destinatarie e suscitatrici di regni di significazione. Tre ambiti ovviamente affatto interconnessi, ma che per limpidezza espositiva sono stati articolati in altrettante distinte sezioni, curate da Aude Chevalier, assistente conservatrice del dipartimento di sculture del Museo Rodin, Cristiana Natali, docente di Antropologia dell’Asia meridionale, Antropologia della danza e Metodologie della ricerca etnografica presso l’Università di Bologna ed Elena Cervellati, professoressa associata di Storia della danza e Teorie e pratiche della danza presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna.

Per un’approfondita quanto illuminante analisi di questa mostra rimando senz’altro a un illuminante articolo-saggio della storica della danza Marinella Guatterini apparso sul quotidiano Il Foglio qualche giorno fa (QUI).

Ai fini del mio piccolo discorso, desidero semplicemente nominare alcune macro-influenze reciproche: la danza nutre Rodin, che crea sculture e disegni e il cui lavoro stimola danzatrici e coreografe mentre è influenzato dalle danze orientali che incontra nelle Esposizioni Universali in una temperie in cui ciò rappresenta per diversi artisti -uno su tutti, Antonin Artaud– una irrinunciabile possibilità per entrare in relazione con l’altro da sé.

 

Tre discorsi, peculiari e al contempo integrati, a ricordarci, ancora e ancora, che l’arte nasce e fiorisce, sempre, in un sistema complesso di relazioni.

Di culture, appunto.

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