The City: questa nostra grande costruzione senza fondamenta

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ph Luca Del Pia

Siamo nella terra dell’antirealismo, in quella sospensione ovattata da incubo dolce, da sogno traumatizzante dove rimanere in balia, naufraghi perché fino in fondo si sente il pericolo ma non gli si dà la giusta importanza. Accorgersi del danno quando è troppo tardi per tornare indietro, che ormai la valanga è partita. Come avvertire un dolore ma tollerarlo perché sopportabile anche se aumenta impercettibilmente, piano piano fino a scavare una ferita profonda non rimarginabile. Martin Crimp ispeziona il disagio orizzontale di una famiglia contestualizzandolo all’interno di un’angoscia sociale verticale. Quello che ne deriva, attraverso questa incarnazione scenica raffinatissima di un ispirato Jacopo Gassmann (una pulizia di segni che già riscontrammo nel suo Ifigenia in Tauride a Siracusa) di linee squadrate a perdersi in prospettiva come uno zoom, a calarsi in un pozzo, a sciogliersi in un imbuto, quasi l’appendice a fisarmonica delle vecchie macchine fotografiche, è un costante senso di insidia, minaccia e rischio, un’ansia diffusa che spiazza e scuote, il tutto cosparso di una tensione inquietante che allarma, intimorisce, punge.

Nella versione inglese del 2007 di The City protagonista era Benedict Cumberbatch passato da Sherlock Holmes a Star Trek come sul set di The imitation game. Il plot è volutamente stratificato, composito e complesso di eventi che quasi in maniera insignificante si sovrappongono fino a costituire un puzzle magmatico e magnetico, un vortice nel quale lo spettatore è tirato dentro cercando appigli per le proprie tesi, spunti, riflessioni, ingranaggi, spiegazioni a qualcosa che più che concreto si rivelerà grottesco e terrificante quanto surreale. C’è un’insoddisfazione palpabile (marito e moglie non dialogano ma sovrappongono i loro monologhi) e tangibile nell’aria elettrica tra questa coppia, lei traduttrice che casualmente ha incontrato un famoso scrittore mediorientale che è stato torturato in patria e che ha perso la sua figlioletta alla stazione e lui manager che sta per essere licenziato. In ballo ci sono i rapporti di forza, compresa quella latente, sotterranea, strisciante, psicologica. Il pubblico non può rimanerne passivo, deve elaborare i dati che gli sono stati forniti ma la razionalità non basta per comprendere fino in fondo tutto il pathos, la sofferenza, gli infiniti non-detto e quella sensazione laterale che annaspa e offusca, sbiadisce e fa perdere il focus, il centro del discorso.

 

ph Luca Del Pia

 

La moglie sembra affascinata dallo scrittore, il marito pare sia colpito da una collega d’ufficio. Una gelosia fredda e gelida attraversa le scene che a poco a poco si allontanano verso il fondo rimpicciolendosi come le piccole verità scandagliate in quest’agorà dove niente è ciò che sembra, dove i contorni del plausibile si sbriciolano, dove sospetti assurdi sono leciti e anche la paura finisce per friggere ogni parola, dove ogni conflitto viene esasperato nel silenzio, nell’accettazione supina e subdola in un’esplicitazione dei sentimenti rigida e distaccata, manieristica. La vicina di casa è un’infermiera che non riesce a dormire perché i due figli piccoli della coppia giocano in giardino. Suo marito, evocato e mai presente, è un medico di guerra e i racconti che la donna espone del conflitto sono insieme senza empatia e drammatici, splatter e indifferenti. Crediamo che alla base ci sia anche un gioco collegato ai nomi: i due della coppia si chiamano Clair e Chris, la collega di lui Jeanette, Jenny l’infermiera. Una suggestione: JC, Jesus Christ. Intanto sullo sfondo appaiono una Madonna col bambino e Humphrey Bogart con Audrey Hepburn. Una scrittura visionaria, che potremmo avvicinare a quella del regista cinematografico greco Lanthimos, davanti alla quale sentirsi in colpa per l’impotenza e sentirsi turbati senza riuscire a focalizzare i nodi da sciogliere. Splendide le scene di Gregorio Zurla e ottimi i tre interpreti, Christian La Rosa, il marito sottomesso, Lucrezia Guidone, la moglie in trincea guerreggiante, Olga Rossi, la strana vicina, tutti nel frullatore di messaggi contraddittori carichi di nervosismo e formalità, disprezzo, derisione, aggressività, regalandosi coltelli.

I vari quadri non procedono temporalmente, sono più degli squarci di Lucio Fontana sulla tela (i vari velatini sezionano le scene come porte tagliafuoco, come ghigliottine), flash, abbagli, aperture dentro situazioni sempre con quel filo rosso di attrito e irrequietezza che culla e cattura, addomestica e imprigiona. Asfissiante e claustrofobico The City (prod. LAC, TS Veneto, Ert Teatro Naz, TPE) non ci lascia scampo, ci tiene ancorati cercando di spiegarci l’inespugnabile senso della vita. Quando appare la figlia della coppia è vestita come l’infermiera, come fosse un suo clone, oppure la stessa persona ma molti anni prima, in uno scarto spazio-temporale, con i propri genitori, mentre sul finale ha gli stessi abiti della bambina dello scrittore arabo prima rapita in condizioni misteriose poi deceduta tragicamente con il sollievo del padre che dopo la sua morte regala inspiegabilmente il suo diario alla traduttrice. Si aprono mondi, si infrange il patto della logica, la verità entra in collisione con il presunto e con il desiderio. Forse la Città del titolo di cui parlano (che nel racconto della distruzione ricorda Gaza sotto assedio) è quella costruzione sedimentata per accumulo di voci e pensieri che si affollano e si addensano in una salsa appiccicosa e impiastricciata indefinibile dove le persone scivolano nel cemento, dove le risate colano nel sangue, dove l’orrore diventa normalmente accettabile nel suo essere agghiacciante. Da vedere e rivedere.

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.

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