Visto da noi: il Barabba trascendente di Kismet Teatro

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Trascendere, in italiano, ha un doppio significato: quello etimologico di «scavalcare fisicamente qualcosa» e quello comune di «esistere fuori dalla realtà sensibile» (esempio, dal dizionario: «Dio trascende il mondo»).

Questa doppia accezione pare racchiusa, e rilanciata, nella lettura biblico-carceraria di Teresa Ludovico di Barabba di Antonio Tarantino, vista ieri sera al Teatro Piccolo di Forlì (lo spettacolo è nel pieno di una densa tournée nazionale, chi desidera vederlo trova le date QUI).

La regista torna all’amato Maestro della drammaturgia contemporanea (conosciuto nella società teatrale, vale ricordarlo, in primis grazie a Franco Quadri e alla sua Ubulibri) creando, con e per il possente corpo-teatro di Michele Schiano di Cola, una precisa spazializzazione che dà tagliente concretezza a quelle carnali e carnose parole.

 

 

La Figura seminuda si muove ed è costretta in un’imponente impalcatura di tubi e ripiani di metallo che ne vincolano e al contempo ne amplificano l’azione.

Come non pensare, due esempi fra molti, a Le cocu magnifique di Mejerchol’d del 1922 e all’icosaedro di Rudolf Laban a Monte Verità, un decennio prima, come dispositivi atti a riconoscere lo spazio quale entità «drammaturgicamente attiva», vero e proprio compagno di lavoro e di creazione per chi è in scena, e non neutro contenitore?

In quei casi storicizzati, ma analogamente nella fortunata produzione del Teatro Kismet, le possibilità e i limiti che le strutture danno e al contempo impongono alle anatomie moltiplicano i piani di possibile significazione.

Nel caso di Barabba, i livelli più espliciti son certo due: quello orizzontale di reclusione, o comunque limitazione della libera mobilità, quello verticale di ascensione (anche) biblicamente intesa.

Ciò non faccia pensare -e questo credo sia il grande merito di questa regia di Ludovico, in stretto dialogo con lo spazio scenico e le luci di Vincent Longuemare– a un mero raddoppio didascalico del fiume di testo a cui, con mille precise sfumature e una ridda di toni e colori offerti con sapiente, apparente noncuranza, Schiano di Cola dà corpo e voce.

 

 

Vi è, in questo pensiero-in-azione, un’attitudine coreografica, dunque letteralmente di «scrittura di corpi nello spazio», che sembra mettere sullo stesso piano, azzardo, i molti elementi che danno luogo al dispositivo: il testo, l’attore, la scenografia, le luci, i suoni: Barabba è un esempio rigoroso e visionario di quel teatro «col testo» (e non «del testo») in cui le parole sono «trampolino», per dirla con Grotowski, per nuove avventure di senso e dei sensi.

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