Carol: Il raffreddamento del melodramma

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Patricia Highsmith
Patricia Highsmith

Nel 1948, la scrittrice texana Mary Patricia Plangman, in seguito meglio nota come Patricia Highsmith e allora ventisettenne, scrive, ispirata dal fortuito incontro con una donna blonde, slender, mysterious («bionda, enigmatica e snella») nei grandi magazzini dove lavorava all’epoca, il racconto The Price Of Salt. Dato il tema del nuovo lavoro – la relazione lesbica tra una divorzianda dell’alta borghesia e un’umile, aspirante scenografa diciannovenne, ancora incerta sul proprio orientamento sessuale – l’autrice, desiderosa di non ostacolare il successo appena ottenuto con il thriller psicologico Sconosciuti In Treno (Strangers On A Train, 1950), poi trasposto su grande schermo con la sceneggiatura di Raymond Chandler e la regìa di Alfred Hitchcock (L’Altro Uomo [Strangers On A Train, 1951]), passa qualche anno, dopo il rifiuto del manoscritto da parte del suo editore, alla ricerca di un’altra “etichetta” disposta a pubblicarne il contenuto e decide, per non essere classificata quale artista gay, di celarsi sotto lo pseudonimo di Claire Morgan. Una volta stampato, The Price Of Salt, uscito in Italia, per i tipi di Bompiani e col titolo di Carol, solo molte stagioni più tardi, vende in sordina, tra edicole, autostazioni e bancarelle, più di un milione di copie. Malgrado il finale tutto sommato lieto, in controtendenza rispetto alle abitudini della Highsmith, che negli anni a venire, grazie al personaggio di Tom Ripley (protagonista di cinque romanzi dal 1955 al 1991), avrebbe sfogato tutte le espressioni più controverse di un inconscio dominato da ambizione e crudeltà, Carol diventa un piccolo culto della letteratura omosessuale nei tempi in cui questa, per usare le parole dell’autrice (dalla postfazione alla nuova edizione del 1989), viene confinata «in una porta buia in qualche recesso di Manhattan, e chi voleva andare in un certo bar scendeva dalla metropolitana una stazione prima o dopo quella voluta».

CAROL (2)A dispetto del tono conciliante della sua conclusione, anche Carol, in fondo, con una sostanziale coerenza rispetto alla sbandierata misantropia della scrittrice, resta il racconto aspro e cinereo di un sacrificio esistenziale, seppur inconsapevole, perché Therèse Belivet – la giovane donna in attesa di esperienze emotive e professionali – vi subisce il fascino della più matura Carol Aird – la donna adulta, elegante e fiera della propria diversità – come forma di reazione alla solitudine, alla mediocrità economica e al senso di fallimento promanato dalla figura appesantita di un’anziana collega con la quale condivide gli alienanti tragitti in metropolitana, quotidiane discese nelle sue oscure porte d’accesso dove entrambe si recano «per essere poi risucchiate in modo lento e inesorabile giù per le scale, come frammenti di avanzi fluttuanti giù per lo scarico». Questo aspetto, però, sembra non aver suscitato né l’interesse della sceneggiatrice Phyllis Nagy, americana trasferitasi a Londra per redigere (tra i primi anni ’90 e la metà del decennio scorso) diversi e fortunati adattamenti teatrali, né quello del regista californiano Todd Haynes, qui ritornato dietro la macchina da presa dopo lo stupendo Io Non Sono Qui (I’m Not There, 2007), dedicato alle multiple identità artistiche di Bob Dylan, e l’altrettanto riuscita miniserie Mildred Pierce (2011), cinque episodi targati HBO con una strepitosa Kate Winslet nei panni dell’omonimo personaggio creato nel 1941 dal romanziere James M.Cain e interpretato, al cinema, da un’indimenticabile Joan Crawford. Cito questi due lavori perché al Carol di Nagy e Haynes avrebbe forse giovato un po’ dello spirito ellittico e meditativo del primo, ma anche un pizzico del taglio doloroso e psicotico del secondo, in quanto stavolta il tentativo di replicare cadenze, atmosfere e schema narrativo dell’acclamato Lontano Dal Paradiso (Far From Heaven, 2002), altro melodramma alla Douglas Sirk, sempre ambientato negli anni ’50 (nel Connecticut anziché a New York), con una storia d’amore interrazziale in luogo del rapporto omosessuale, non procura alcun brivido, non produce flessioni di sensualità, non abbraccia né combatte la fisicità dei sentimenti, non trasmette passione, complicità o erotismo.

CAROL (3)Come sempre, da un punto di vista estetico, la perfezione conseguita da Haynes nel rifarsi al citato Sirk, a William Wyler, a Frank Borzage o, solo nello sguardo desiderante e ammirato sugli zigomi delle attrici (ampi e sofisticati quelli di Cate Blanchett, più spigolosi e acerbi quelli di Rooney Mara, tutte e due bravissime), a John M. Stahl, risulta inattaccabile, esaltata dalle luci morbide, iperrealiste e opacizzate del solito Ed Lachmann, magnifico nel ricreare lo scenario luccicante e ovattato della New York del periodo, dai costumi straordinari di Sandy Powell (encomiabile la sua vocazione a suddividere le stoffe indossate dai protagonisti in base al censo) e dal montaggio disteso, stilizzato, volutamente privo di sussulti dell’ottimo Affonso Gonçalves. Ma se da un regista elegante e controllato quale Haynes, a ben guardare, è sempre stato (persino nell’asettica ferocia di opere apparentemente devianti, o controverse, come Poison [1991] e Safe [1995]), sarebbe sciocco attendersi la disposizione sanguigna, la rabbia e la vigorosa aggressività del migliore tra gli estimatori di Sirk, ovvero il tedesco Rainer Werner Fassbinder, molti, troppi fotogrammi di Carol richiedono a gran voce un sussulto di emozione o un sospiro di carnalità costantemente negati dal raziocinio formale del cineasta, così controllato, calcolato e raffreddato da far somigliare l’amplesso tra Blanchett e Mara, a lungo atteso e in teoria liberatorio, a un glaciale esame medico eseguito sopra un tavolo autoptico.

CAROL (4)Quanto vediamo è sempre accurato e forbito, ma può essere anche vuoto. L’assenza di passaggi sopra le righe viene da Hayes rivendicata visualizzando di continuo la frustrazione sessuale, in procinto di sciogliersi, delle due protagoniste, il cui campo ottico è sempre filtrato, e spesso offuscato, da finestre, finestrini, vetrine e specchi, fino a sfidare la possibilità stessa di riconoscersi nei personaggi, trasformati in spente allegorie di un impulso al cambiamento represso dal contesto perbenista. Nell’ultima inquadratura, infatti, Therèse e Carol, pur disturbate dagli avventori di un ristorante, riescono finalmente a guardarsi, e sull’incrociarsi dei loro sguardi il regista, a ragione, saluta gli spettatori. Il piacere di immaginare – un proseguimento o una svolta – è troppo importante per chiudere la partita in modo più compiuto, o con una soluzione più geometrica. Ma a parte questo piccolo dono, il registro di Haynes, nella sua disperata sobrietà, appare ancora troppo “ragionevole” per dare conto, nella New York degli anni ’50 come ai giorni nostri, della passione e delle oscillazioni del cuore, delle anime e del cinema stesso.

Gianfranco Callieri

CAROL

Todd Haynes

Usa/Uk – 2015 – 118’

voto: ***