Il mare d’inverno. Un ricordo di Gian Vittorio Baldi (1930-2015)

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Gian Vittorio Baldi

 

 

Gian Vittorio Baldi
Gian Vittorio Baldi

Nonostante la scheda di Wikipedia a lui dedicata ne indicasse (e ne indichi ancora) Lugo come città natale, Gian Vittorio Baldi era nato, nell’autunno del 1930, a Bologna, dove il padre aveva insegnato Diritto del Lavoro all’università e lui stesso, molti anni più tardi, sarebbe diventato docente, occupandosi per qualche tempo del corso di Filmologia presso l’allora appena istituito DAMS. Il cinema, per Baldi, è stato una magnifica ossessione inseguita con i tratti solitari, appartati e ostinati del proprio carattere, intrecciata alle lotte e agli ideali politici mai rinnegati («Tento di oppormi all’egemonia del denaro», era solito dire. «Vorrei vivere in una società nella quale tutti i cittadini potessero andare al cinema gratis»), dedicata alle vite degli ultimi e degli emarginati, radicata al tempo stesso in quel territorio emiliano-romagnolo che aveva imparato a conoscere e amare durante gli anni della guerra (passati sfollando tra il faentino e la provincia di Modena) e nel perenne, romantico desiderio di fuga, sentimento e conoscenza che l’avrebbe portato a girare nei panorami remoti del Brasile o della Bosnia ai tempi della guerra civile balcanica. Ebbe un rapporto stretto con la Roma inventiva e anti-borghese degli anni ’60, non solo per la frequentazione del Centro Sperimentale di Cinematografia, ma più che altro per i numerosi progetti televisivi confezionati sotto l’egida della RAI di Rodolfo Arata e, in un secondo momento, di Ettore Bernabei: fu infatti grazie alla tv di stato che Baldi riuscì a trovare i finanziamenti per realizzare i primi, bellissimi cortometraggi, documentari attenti e partecipi sul mondo del lavoro e sulla storia italiana del ‘900, inquadrata tra fatti di cronaca e ricerca antropologica.

Al Festival di Venezia del 1958 ottenne il premio speciale della Giuria (si sarebbe aggiudicato il Leone d’Oro per il miglior corto due anni dopo, con La Casa Delle Tredici Vedove, spietato ritratto della solitudine senile di una comunità di ex-domestiche) per Il Pianto Delle Zitelle, sul tradizionale pellegrinaggio effettuato tutti gli anni, in occasione della domenica di Pentecoste, delle ragazze non ancora sposate di Vallepietra, un minuscolo comune nel confine tra Lazio e Abruzzo, e fu proprio il suo caloroso interesse per i borgatari, gli sconfitti e i figli meno abbienti della società (evidente nell’esordio “lungo” di Luciano, Una Vita Bruciata [1962], sferzante radiografia di una redenzione impossibile da collocare accanto alle metafore cristologiche di Accattone e alla desolazione periferica del Mauro Bolognini della Notte Brava) che lo portò a collaborare con Pier Paolo Pasolini (Baldi lo chiamava «il poeta gentiluomo»), spirito affine, nonché concittadino, al quale il nostro produsse Porcile (1969), una delle opere più scomode e inclassificabili nella filmografia del regista di Mamma Roma, e Appunti Per Un’Orestiade Africana (1970), ancora modernissima riflessione sulle tragedie di Eschilo ambientata in Tanzania, Kenya e Uganda e attraversata dal bruciante sax di Gato Barbieri.

In veste di produttore, Baldi sponsorizzò le pellicole che gli sarebbe piaciuto vedere da spettatore: molti documentari su zone di guerra inaccessibili ai più, lavori d’avanguardia dell’underground italiano legato ai movimenti ideologici del ’77 e anche, forse soprattutto, film d’autore altrimenti impossibili da portare a termine, per esempio la Cronaca Di Anna Magdalena Bach (1968) degli “irriducibili” Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (frutto di una lavorazione durata tredici anni), il «western politico» Vento Dell’Est (1970), diretto da un Jean-Luc Godard in piena sbornia marxista-leninista, oppure ancora le Quattro Notti Di Un Sognatore (1971) di Robert Bresson, trasposizione insolitamente malinconica (e nondimeno splendida) di un racconto di Fedor Dostoevskij, Le Notti Bianche.

Da regista, invece, Baldi coltivò l’indipendenza come prassi quotidiana, in questo raccogliendo il testimone degli amatissimi maestri Joris Ivens e Glauber Rocha, e riuscì sempre a trovare, nella ristrettezza dei mezzi, il trampolino di lancio verso un’organizzazione visiva di straordinario rigore, una disciplina inflessibile dell’immagine, una perlustrazione costante e talvolta molto avanzata delle risorse della macchina da presa. Tra i suoi lungometraggi meritano un cenno a parte almeno il dirompente Fuoco! (1968), sulla disperata, inconcludente rappresaglia di un disoccupato barricatosi in casa (dopo aver sparato a una statua della Madonna) con moglie, figlio e cadavere della suocera, uno dei film più duri e rabbiosi di tutto il ’68, ancora più radicale (sebbene, in un certo senso, meno risolto) dei Pugni In Tasca di Marco Bellocchio e di sicuro meno metafisico e velleitario del Giardino Delle Delizie di Silvano Agosti; lo stralunato, delirante thriller La Notte Dei Fiori (1971), con Dominique Sanda in stato interessante e un corredo di artifici visivi e sonori tipici delle opere di contestazione di quegli anni; il dolente L’Ultimo Giorno Di Scuola Prima Delle Vacanze Di Natale (1975), apologo rattristato sulla bestialità del fascismo (nel 1944, tre repubblichini sequestrano una corriera e ne uccidono senza motivo tutti i passeggeri, compreso il piccolo scolaro Athos) e sul paesaggio emiliano, girato quasi tutto in maestosi, solenni, nebbiosi, elegiaci campi lunghi alla Theodōros Angelopoulos nonostante una scenografia adattata pressoché in toto allo spazio angusto di un autobus; il sottovalutato Nevrijieme – Il Temporale (1999), altra operazione travagliatissima per una parabola frammentaria e sfuggente, con moltiplicazione dei punti di vista modello Kurosawa (ma fotogrammi rielaborati in digitale), sul conflitto serbo-bosniaco. Baldi continuò anche a lavorare per la televisione, mettendo insieme documentari ogni volta toccanti sulle rivendicazioni degli operai della FIAT (Anni Duri, 1977), sulla Seconda Guerra Mondiale vista con gli occhi di contadini e montanari (la tetralogia del 1987 intitolata Anni Luce), sulle lotte dei partigiani (montate nel magnifico Testimonianze Sulla Resistenza, interviste raccolte nel 1997 su incarico del comune di Marano Sul Panaro) e non smise mai, nemmeno per un istante, di accarezzare centinaia di progetti e pedinare migliaia di storie. Affidato il proprio fondo di film alla Cineteca di Bologna (cui si deve, curata con infinito amore da Roberto Chiesi, l’edizione in dvd di Fuoco!, targata 2009), da anni Baldi si era ritirato a vivere sulle colline tra Brisighella e Modigliana, nella terra d’origine del bisnonno. Ma dato il personaggio, si era trattato di un “ritiro” comunque vulcanico e in continua evoluzione, ricchissimo di idee, spunti e iniziative, dall’istituzione della International Filmaking Academy all’apertura, in quel di Faenza, di un centro di studi – l’Università Hypermedia – sulla comunicazione e il linguaggio audiovisivo, senza naturalmente dimenticare la pittura (nel 2014, la Galleria Comunale di Faenza aveva dedicato alle sue tele una mostra chiamata Il Recupero Dell’Eterno Presente), la promozione di svariate scuole di cinema, l’incessante programmazione di seminari sulle arti.

Malgrado l’eruzione a getto continuo di trovate e manifestazioni, Baldi aveva inoltre recuperato il tempo per reinventarsi come produttore di vini: con l’aiuto di Gino Veronelli e dell’agronomo Remigio Bordini, mise mano ai “ronchi” (cioè i fazzoletti di terra «strappati al bosco con la roncola») della Romagna, a Modigliana, e piantò selezioni di Sangiovese concimate solo a letame (rame e zolfo in vigna) quando la fissazione per i prodotti bio era ancora ben lontana dal dilagare, se ne uscì con bottiglie straordinarie, alcune entrate nella leggenda (non è un’esagerazione: provate a comprare una delle prime annate…) e la sua azienda – la Castelluccio – divenne sinonimo di qualità e passione artigiana.

Gian Vittorio Baldi è morto lunedì 23 marzo, all’età di 85 anni, e se il mondo è più povero perché ha perso un artista in grado di conversare e affabulare per ore parlando di film, libri, bicchieri e dipinti, il patrimonio della sua eredità culturale (quindi anche enologica) è di nuovo qui, da riscoprire o da scoprire per la prima volta, indispensabile per chi ancora crede che il cinema, come il vino e la terra, abbiano più di un particolare in comune con la poesia.

GIANFRANCO CALLIERI