La depressione post Iggy Pop

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Annunciata l’uscita di Post Pop Depression, un po’ sul serio e un po’ no l’Iguana ha detto pulito che qui potrebbe scattare la pensione – ossia che microfono e jeans li appenda definitivamente al chiodo. Chissà. La speranza è che no, Iggy Pop non lasci il mondo della musica con un disco così, di quelli che non sai come prendere – se apprezzarne l’intento o se dichiararlo superfluo. Già, anche perché il sogno nel cassetto di chi scrive, è quello di vedere Iggy che dà l’addio con un bel disco blues di quelli per il quale si tirino in ballo Skip James, Howlin’ Wolf, Robert Johnson, Leadbelly, Robert Pete Williams, John Lee Hooker, Lightnin’ Hopkins e Muddy Waters – dove, magari, a dargli man forte arrivi nientemeno che Deniz Tek (Radio Birdman). Di tempo non ve ne è troppo – ma non sembra troppo tardi per l’agognato Iggy goes blues.

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Per Post Pop Depression l’ex Stooge si è imbarcato in una strana avventura – ha chiamato a sé il campione del cosiddetto stoner rock Josh Homme (Kyuss, Queens Of The Stone Age, Eagles Of Death Metal) e con lui ha scritto e inciso il lavoro in fretta e furia nel cuore del deserto di Joshua Tree in California, con accanto un altro paio di giovani leve a dar man forte: Dean Fertita al basso (anche lui dei Queens Of The Stone Age) e Matt Helders alla batteria (Arctic Monkeys). In parole chiare, di fusione a freddo trattasi – dato per scontato che chiunque abbia flirtato con il punk rock è come se lo avesse fatto con Iggy, qui la torta sembra mancare di lievito. La pista scelta è quella di portare il genio di Detroit nel deserto per fargli rivivere un po’ di quel glam che univa sottilmente gli ultimi classici Stooges di Raw Power (1973) e il periodo berlinese passato accanto a David Bowie. Solo che Homme si fa scappare la mano, gioca pesante con la produzione e soprattutto sembra usare Iggy fastidiosamente come soprammobile del suo progetto anziché prestarsi a fare la spalla come dovrebbe essere. E i vecchi fan dell’Iguana una cosa così la soffrono – molto.

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Qualcosa di buono Post Pop Depression la porta in dote, poiché Iggy Pop è comunque troppo esperto per farsi imbrigliare senza cenno di reazione. Su tutto il meglio sembra arrivare con Vulture, minacciosissimo blues sui generis dove l’Iguana diventa licantropo: di pezzi così ne ha incisi tanti ma è, appunto, un filone che piace – e non stanca. Altro passaggio di pregio è Sunday – a prendere il sopravvento è l’Iggy metropolitano che ricorda addirittura il funk spastico del troppo spesso dimenticato New Values (1979) – giusto per ribadire che se Iggy si impegna, stiamo sempre parlando di un maestro, di quelli assoluti.

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Le note dolenti arrivano quando Josh Homme come produttore pensa di essere David Bowie – e siamo anche veramente lontani da che gli assomigli almeno un po’. Gardenia, singolo prescelto per lanciare il disco, è di una banalità sconcertante: beat dei Queens e ritornello che vorrebbe tanto essere cosa del Thin White Duke ma che in tutto e per tutto scade in poche note messe insieme alla rinfusa. La fiera dell’insulsaggine, ahinoi, non si ferma lì: ParaguayChocolate Drops – il falsetto di contrappunto di Homme, perdonino i fan più scatenati del ragazzone, è roba che si becca almeno tre anni di galera senza condizionale – Break Into Your HeartGerman Days – pasticciaccio brutto che della Berlino by Bowie/Pop sembra una foto di una foto di una foto… –  fino al peso piuma American Valhalla, sono il risultato di un capriccio: quello di chi come Iggy la storia del rock l’ha scritta veramente anche se ora sembra voler tirare i remi in barca e quello di chi come Homme la storia del rock la storpia aggrappandosi a cliché triti e ritriti. Ah, scordavamo – ma che bel titolo comunque è Post Pop Depression!

CICO CASARTELLI

IGGY POP – Post Pop Depression (Loma Vista)

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