Love & Mercy: Il genio al lavoro, tra surf e antidepressivi

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LOVE & MERCY (1)C’era molta aspettativa intorno a Love & Mercy, biografia di Brian Wilson dei Beach Boys realizzata da Bill Pohlad, regista al suo secondo film dopo un lontano esordio (Old Explorers, 1990) e tre lustri da produttore di pellicole altrui, perché la sceneggiatura di Oren Moverman, già responsabile dello script alla base di Io Non Sono Qui (I’m Not There, 2007), sugli alias e le vite multiple di Bob Dylan (tra i più riusciti lavori a sfondo musicale della passata decade, nonché l’opera migliore di Todd Haynes), era apparsa di per sé una garanzia di interesse e qualità. E sebbene sul copione di Love & Mercy ci sia poco da eccepire (almeno in termini di funzionamento), l’apprezzamento di un film simile dipende in larga misura da cosa in esso andiate cercando. L’accuratezza della ricostruzione storica, con tanto di sequenze finalizzate a riprodurre in ogni dettaglio foto storiche del passato e copertine dei vecchi album, è fuori discussione, così come la documentazione assimilata dal suddetto Moverman, scrupolosissimo nonostante uno dei protagonisti dell’epoca – il compositore e arrangiatore Van Dyke Parks, collaboratore ricorrente del gruppo, soprattutto nei pressi del leggendario Smile, concepito tra il 1966 e il 1967 ma pubblicato in via ufficiale solo 44 anni più tardi – abbia definito Love & Mercy «il biopic della Signora Wilson», suggerendo un eccesso di aderenza alla versione dei fatti sostenuta dalla seconda moglie di Brian.

LOVE & MERCY (4)Tuttavia, se questo ci dà l’occasione di vedere sullo schermo, anche con maggiore frequenza del dovuto, le gambe e il sorriso della splendida Elizabeth Banks (appunto l’attrice chiamata a incarnare Melinda Ledbetter, la venditrice d’automobili conosciuta dal nostro trent’anni fa e oggi sua manager), non capisco dove stia il problema. Persino la cornice temporale del racconto, frammentaria e non lineare, articolata intrecciando passato remoto, ovvero gli anni ’60 del Wilson interpretato da Paul Dano, e prossimo, cioè gli Ottanta, comunque dominati dalla figura controversa e ossessiva dello psichiatra Eugene Landy (Paul Giamatti), in cui il testimone passa alle fattezze più scavate di John Cusack, si rivela funzionale al dispiegamento di un flusso emotivo senza centro e senza periferie, costruito, come le canzoni più belle dell’artista di cui si raccontano le peripezie, su strati e strati di ramificazioni circolari, talvolta aperte, con piccole deviazioni tramite le quali la storia si attorciglia e ritorna su se stessa.

LOVE & MERCY (2)A lasciare perplessi, semmai, è la totale mancanza di sfumature (veritiera o meno, poco conta: sul grande schermo l’effetto è in ogni caso fastidioso per banalità e prevedibilità) impiegata da Pohlad per descrivere un Wilson doppiamente succube di altrettante figure paterne (prima il padre naturale, il dispotico Murray Wilson, poi la sua proiezione nel citato Landy), il suo continuo indugiare su dialoghi lunghi e inconsistenti, silenzi imbarazzati, battibecchi, esplosioni di rabbia e sconforto, arroccamenti interiori e brandelli di musica nella speranza di estrarne un puzzle lucido seppur incoerente: a uscirne fuori, però, è un collage di momenti dove individuare la consapevolezza di un punto d’arrivo è impresa vana. La colonna sonora di Atticus Ross si prodiga nel tentativo di sonorizzare l’intimo disordine circolante nella mente di Wilson, ma qual è l’obiettivo di fondo, se le registrazioni di questo disordine esistono già e si chiamano appunto Pet Sounds (1966) o Smile?

Paul Dano, Brian Wilson e John Cusack
Paul Dano, Brian Wilson e John Cusack

Love & Mercy, insomma, appare nient’altro che una decalcomania su alcuni passaggi del pellegrinaggio terrestre di Wilson, certo più interessanti di quelli vissuti dalla maggior parte dei suoi colleghi e tuttavia già sviscerati in decine di saggi e documentari. Se quello di Io Sono Qui era un format cinematografico profondamente intellettuale, concentrato sull’idea dell’artista/autore sfuggente, elusivo e impossibile da catturare per intero (come Dylan, anche nelle sue incarnazioni più popolari, è d’altronde sempre stato), Love & Mercy si culla invece nell’ambizione di cogliere, attraverso un linguaggio colto, l’essenza di una vita, congelandola in una galleria di tableaux-vivants. Eleganti, ricercati, verosimili e minuziosi, per carità, ma sempre inevitabilmente molto freddi. Lontanissimi, tra l’altro, da quella nuvola di melodie celestiali e architetture neoclassiche del suono di cui è fatta, dal 1961, l’arte impareggiabile di Brian Wilson.

Gianfranco Callieri  

LOVE & MERCY

Bill Pohlad

USA – 2014 – 121′

voto: **