Neil Young e la licantropia

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È successo veramente, non è un sogno – per la terza volta in pochi giorni, e per di più in Italia, Willie Nelson si unisce a Neil Young ed è davvero quel che si dice un evento! Succede appena dopo che i Promise Of The Real intonano nientemeno che una versione completa di Nel blu dipinto di blu (Volare) di Mimmo Modugno: Willie, uno dei grandi re della musica americana post bellica, arriva con tutta l’essenza della sua maestà e con il Loner canadese intona prima Are There Any More Real Cowboys?, duetto che già regalarono ai tempi di Old Ways/Half Nelson (1985), e poi il programmatico inno On The Road Again. Il pubblico è in visibilio ma anche molto commosso: storia e grandissima musica che si svelano lì davanti a te non è cosa di tutti i giorni. E non contenti, i due pesi massimi concedono il bis alla fine, qualche mezzora dopo, con Homegrown, salmo in excelsis deo per la verde maria-juanita che con Nelson sul palco calza come un guanto – gloria sia, insomma!

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Per il resto, a guardar bene, in fondo è quasi scritto già nel nome del canadese – Neil goes Young! Un paio di aborti, prima con i Devo e poi con i Phish, un pasto completo con i Pearl Jam, senza scordare la veloce merenda con Jack White – adesso cilindro Neil s’inventa disco + tour + irritante doppio disco live + ancora tour con i Promise Of The Real, band di sanguegiovane che in prima fila vede nientemeno che i figli di Willie, Lukas e Micah. In parole povere, passata la giovinezza, di quando in quando Neil Young cerca di sfruttare per sé quella degli altri – riuscendovi a fasi alterne, un po’ come capita a quello zio che da piccino adoravi incondizionatamente e che, invece, adesso con gli occhi di adulto ti sta un po’ sui cosiddetti per tutta una serie di ragioni ma a cui vuoi sempre bene.

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L’operazione parte con un principio nobile: l’intenzione dichiaratamente anti-corporation già palese nel titolo dell’album di studio (The Monsanto Years, 2015) che però si è schiantata di fronte a un’aridità di idee e d’ispirazione abbastanza sconcertante – a voler essere buoni lì si salvano si e no due pezzi, Wolf Moon e Big Box, perché il resto naufraga in una confusione ben lontana dal gusto per il patchwork che il Loner ha sempre avuto bensì quella di chi sembra aver perso la bussola. Ma come tutti i grandi, Neil sa come sorprendere ed è maestro del colpo di reni – perché con tutti i dubbi e i pregiudizi che attanagliavano approssimandosi al concerto, lo spettacolo visto ai Mercati Generali di Milano, evento apparizione di Willie a parte, ti lascia a bocca aperta: tre ore di musica pulite dove su tutto vien fuori che i Promise Of The Real non sono certo dei campioni di tecnica ma possiedono l’ingrediente giusto per appiccare il fuoco alle voglie di Neil-a-settan’anni – il feeling, grande così!

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Non che tutto sia perfetto ma certamente è frutto di grinta e volontà fuori della norma, quelle del signore unico sovrano del Broken Arrow ranch. Neil prende i ragazzi Nelson e li fa suonare un po’ Crazy Horse un po’ Stills-Young Band un po’ Trans band ma soprattutto ne fa da Padrino, sembra dirgli: seguitemi che vi porto io nel posto giusto. Il pubblico assiste allibito, garantiamo! Dopo l’attacco solitario che si sbarazza di classici d’obbligo (After The Gold RushHeart Of GoldThe Needle And The Damage Done), da quando Neil si siede al pump organ per Mother Earth (Natural Anthem) inizia una performance che resterà scolpita nel granito della memoria di tutti gli accorsi. La prima parte elettro-acustica, a livello di atmosfera, è un trionfo del Neil westcoastiano con magnifiche esecuzioni di capolavori quali From Hank To HendrixOut On The WeekendComes A Time e Old Man – tutti eseguiti con anima e passione, quelle di chi non lo metti da parte nemmeno se usi le granate.

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Passato il Willie momentum, inizia un furore elettrico che tira fuori il meglio di una band la quale ha iniziato un percorso con i dischi e che adesso on stage ha trovato la quadra. Senza volere citare tutti i brani (per quello vi lasciamo al web o alla fanzine che usciranno fra uno-due mesi, che di mezzo vi è Agosto), quanto ascoltato in Winterlong, in Words (Between The Lines Of Age) – uno dei pezzi più laceranti di tutto il repertorio Young – in Powderfinger, in Cowgirl In The Sand – con Neil che dà impagabili lezioni di fingerpicking elettrico con Old Blackie, la sua leggendaria Gibson nera – in Mansion On The Hill – il Loner elettrico che si fa Gulliver in un modo di lillipuziani – ne la vibrante nostalgia di Western Hero, fino all’eccezionale uno-due tratto da On The Beach (1974) con Vampire Blues e sopratutto con Revolution Blues, dove il fantasma dell’hippie folle Charles Manson e la sua luciferina Family hanno davvero circondato i presenti con «dieci milioni di dune buggies che scendono giù delle montagne». Se tutto questo, nell’intrinseco animo lunatico di Neil Young, è parso profumare di grassroot, non avete capito male: è quello l’incenso scelto, fra tuoni e fulmini di una splendida serata estiva di cielo terso pieno di stelle e con luna piena, che ha ispirato Neil il licantropo, hombre solitario il quale al sesto decennio di attività, dopo i vari Crazy Horse, Stray Gators, Gone With The Wind Orchestra, Shocking Pinks, International Harversters, Bluenotes, Restless, Pearl Jam, Booker T. & The MG’s, alla lunga lista annota anche la Promessa di cosa vera – che a una certa, venerabile età sembra un buon modo per guardare alla vita.

CICO CASARTELLI

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