Bon Iver, il suono della Band 2.0/2.1

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La Band – tutti che giustamente celebrano Music From The Big Pink (1968) e The Band (1969) come massimi capolavori del gruppo di Levon Helm e Robbie Robertson nonché dell’intera musica mondiale – ma che peccato vedere, per esempio, Northern Lights-Southern Cross (1975) sempre poco citato fra i grandi album di sempre. Già, perché se si ascoltano bene certe cose dei Wilco, dei My Morning Jacket e appunto dei Bon Iver – per passaggi di staffetta, pressoché il meglio dell’indie rock americano divenuto adulto negli ultimi vent’anni – ci si accorge che l’ombra lunga di quel magnifico album è ben presente: la Band prima de L’ultimo valzer si reinventò magnificamente e, peraltro, si può anche dire che Robertson con Storyville (1991), il suo miglior album solo, ne riprese le fila di quel discorso – o meglio, di quel sound di fine-Band.

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The Mann CenterPhiladelphia, PASeptember 16, 2012 DerekBrad.com

Fanno quasi dieci anni che i Bon Iver folgorarono con l’esordio For Emma, Forever Ago (2007, anche se molti lo hanno conosciuto un anno più tardi) – di lì il passo è stato lento, pastorale, costante e Band-iano, e proprio per questo molto apprezzabile, almeno da queste parti. 22, A Million è l’atto terzo di un gruppo che sa come evolvere, che sa quanto sia importante attirare l’attenzione su di sé anziché inseguire i gusti del pubblico come troppo spesso capita di cogliere in altre realtà musicali contemporanee. La musica di Justin Vernon, il dominus del quintetto aperto, l’hanno chiamata nei modi più disparati – folktronicindie folkglitch-tronicbaroque pop – ma in verità, proprio come i grandi gruppi quali la Band, è più semplicemente parte del grande romanzo dell’America a sette note. E questo disco dispari, volutamente irregolare, dall’atmosfera quasi occulta è un gran bel colpo nel panorama musica 2016.

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La verità, se ne esiste una, è che 22, A Million è avvincente proprio perché non classificabile – non che non abbia influenze, anzi, il bello però è che messo insieme in maniera tale, obliqua verrebbe di dire, che le influenze le trascende. Il risultato è quello di chi, Vernon naturalmente, ha le idee chiare nello sforzarsi di fare nulla che richiami a quel che fanno i contemporanei – come dimostra l’ennesimo ascolto che davvero incanta, seduce e chiede un nuovo spin. Appena ci si accosta a 22 (Over Soon) – con tanto di sample di How I Got Over (Live), vecchio standard associato a Mahalia Jackson – primo di dieci titoli criptici, si ha la sensazione che i Bon Iver vogliano svegliarci di soprassalto e cacciarci dentro un vortice senza soluzione di continuità. Vortice che continua di passo in passo con l’effetto glitch straniante di 10 (Death Breast), costruita intorno al sample di Wild Heart della regina Fleetwood Mac Steve Nicks, il gospel rarefatto per piano ma pure qui con sample di Abacus del neo-folker irlandese Fionn Regan oppure 33 “God”, vero delirio sample dove si conta un po’ di tutto ma con grande coerenza: Dsharpg di Sharon Van Etten, Morning della country star da poco scomparsa Jim Ed Brown, Iron Sky dello scozzese idolo pop-rock Paolo Nutini e All Rendered Truth del leggendario multimedia black artist Lonnie Holley – a nominarli tutt’insieme sembra una stoccata degna di Fatboy Slim ma, in verità, non si potrebbe essere più lontani rispetto all’opera dell’ex Housemartins.

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Il giro in giostra che offre l’album, comunque sia, trova il suo picco di adrenalina con la splendida ballad 8 (Circle), che più Richard Manuel di così si muore – e altrettanto con la claustrofobia 666 (Upsidedowncross), la quale quasi sembra un pezzo di hi-tech modello Peter Gabriel, non fosse che Justin Vernon ci mette quel non so che di originale e sfuggente che lo fa inequivocabilmente sembrare tutto suo – e lo è, peraltro.

CICO CASARTELLI

BON IVER – 22, A Million (Jagjaguwar)

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