Il taccuino del critico: “Hysterical Furniture” di Jonathan Burrows/Matteo Fargion & guests

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foto di Ben Parks

 

disegno di Peter Rapp

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Da un po’ di tempo sperimento, per una parte dei lavori che incontro, una modalità di restituzione che funziona così: durante gli spettacoli prendo alcuni appunti sul mio taccuino. Inevitabilmente (anzi: intenzionalmente) frammentari.

A seguire li ricopio qui.

Nessun approfondimento.

Alcuni lampi.

Qualche artista vanitoso ogni tanto si offende, perché la sua ricerca «richiederebbe ben altra attenzione» rispetto a queste poche righe.

Pazienza.

Mi consolo in anticipo con Ennio Flaiano: «Il segreto è raggiungere da professionisti la disinvoltura dei dilettanti, non prevalere, far credere che la cosa sia estremamente facile, un divertimento che trova la sua ragione di esistere nel fatto di essere più leggero dell’aria».

Buona lettura.

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Hysterical Furniture

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Eleanor And Flora Music

Spartiti musicali, prima a terra e poi su un leggio al centro della sala.

Le danzatrici, nel silenzio, li raccolgono. Li leggono, li traducono in coreografia.

Chissà se l’ordine dei fogli sul leggio è casuale?

Alea. Non apertura interpretativa, allargamento del campo, ma non-struttura del reale.

Danza dinamica, a tratti ginnica.

Brevi sincroni. Salti, prese, appoggi. Minimi vocalizzi.

Come un catalogo di possibilità. Una tassonomia di posture nello spazio.

Inespressione, assenza di soggettività. Soprattutto: immediatezza, che porta l’arte sul piano del mondo.

È una danza che non ha scopi, men che meno quello di comunicare.

C’è John Cage, molto vicino.

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foto di Camilla Greenwell

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Speaking Dance

Due sedie, due microfoni.

Left. Right. Stamp. Stop.

Partitura vocale intrecciata.

Silence. Sitting. Walking. Silence.

One. Two. Three. Stop. Breath out. Breath in.

Parlare. Parlare intonato.

Jonathan Burrows si alza in piedi. Brevi sequenze di movimento, linee con le braccia. Matteo Fargion canta. Anche canzoni popolari italiane.

Fra loro c’è un fare senza gerarchie: due singolarità condividono un tempo e uno spazio di esecuzione.

Danza come ascolto, prima e più che come produzione.

Su semplice musica registrata dire il nome delle note che vengono suonate. Dire le cose, nominare il reale.

«Gli aborigeni non credevano nell’esistenza del paese finché non lo vedevano e non lo cantavano». Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti. 

Punch. Beat. Shake. Poke. Throw. Pat. Flip. Crush. Cut. Stretch. Smear. Squeeze. 

Nessuna narrazione. Una danza che si concentra sul significante, sul fare, sul materiale.

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The Barman’s Portrait

Tutti in piedi, stipati nel bar del Circolo degli Ufficiali.

Breve bio della barista cantata e suonata da Matteo Fargion.

Lei sta.

«Una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano se stesse e nient’altro». Italo Calvino, Palomar.

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Mette Edvardsen Live Portrait

Bringing the inside out and the outside in.

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foto di Ben Parks


Both Sitting Duet

Quaderni su cui leggere il da farsi.

Suono delle mani strisciate su pantaloni, maniche.

Linee nello spazio, brevi sincroni e sequenze.

Due corpi non più giovani, molto vivi.

Tutto ha un tempo musicale, nel silenzio.

Ready made gestuali.

Scricchiolio delle sedie. Performance accoglie il mondo così com’è, non selezionato. Torna Cage.

Partitura molto complessa, che loro non dominano pienamente: nessuna esibizione di bravura, ma un reale incontro con un materiale coreografico.

«Il performer realizza una messa in scena del proprio io». Patrice Pavis, Dizionario del teatro.

Quale io?

«Perché quando uno dice “Io” – appunto – che cosa ti pensi che pensa, in fondo? Nemmeno lo sa, quello che pensa, veramente. – E invece, dice queste cose qui, proprio, prima di tutto – perché dice i piedi dice tante dita – e poi dice la fronte, le cosce, l’ombelico – non so – dice le ginocchia, le ascelle – no?». Edoardo Sanguineti, Storie naturali.

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immagine di Hugo Glendinning

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52 Portraits

Jonathan says he started writing a list

of all the dance artists still alive

whose work he loves and needs.

Whose work he loves and needs.

And it got longer and longer

and he kept writing

and he was going to read it out to you,

and he was going to end the list

with the ones he missed

saying you, and you, and you, and you,

and you, and you, and you.

Saying you, and you, and you, and you,

and you, and you, and you.

This is the end of the 52.

It is an epic,

an epic love song.

It could go on.

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MICHELE PASCARELLA

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Jonathan Burrows/Matteo Fargion & guests, Hysterical Forniture – Visto il 28 gennaio 2017 al Circolo degli Ufficiali di Bologna – info: jonathanburrows.info, xing.it, arenadelsole.it

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