Non dobbiamo lasciarci travolgere. Su “L’apparenza inganna” di Thomas Bernhard, con Sandro Lombardi e Massimo Verdastro

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foto di Luca Manfrini

 

Ne L’apparenza inganna di Thomas Bernhard due fratelli si contendono la memoria della defunta moglie di uno dei due. Karl, il consorte, ora in pensione, è stato un artista di varietà molto noto, un giocoliere che sapeva far volare fino a ventitre piatti, come veniamo a sapere dalle sue rievocazioni; Robert, un attore di teatro che con una messinscena del Torquato Tasso di Goethe ha raggiunto l’apice della carriera teatrale, ma non è mai riuscito a mettere in scena Re Lear di Shakespeare, per un venir meno della facoltà mnemonica, che gli impedisce di assimilare come si conviene le battute del personaggio.

La loro è una vita improntata all’esecuzione di piccoli rituali; in quelle piccole gabbie dorate che sono le abitudini entrambi i fratelli si adagiano, o si agitano, dando sfogo a un campionario di vezzi e tic, piccole manie le quali incastonano un flusso verbale che attinge soprattutto al passato glorioso dei due, per poi disperdersi, o interrompersi, in una quotidianità di tedio, o rinforzarsi nella nostalgica rievocazione della passata vita con Mathilde, la defunta – con accenti più affettuosi in Robert, corrosivi in Karl – neutralizzando ogni impulso vitale.

Anche la conversazione si muove su temi che tornano e si condensano in rancorosi o nostalgici moti della memoria intorno a Mathilde, o alla famiglia di origine (madre, padre); o alla carriera.

I due fratelli non stanno così bene insieme, ma non possono neanche fare a meno di andarsi a trovare vicendevolmente, presso le rispettive case, ogni martedi e giovedi.

Ed è proprio nell’appartamento di Karl che il pubblico viene ammesso. Nella sala 3 del Teatro Franco Parenti tutto è predisposto affinché lo spettatore possa fare un’esperienza teatrale che alla distanza del palco sostituisce l’intimità di un interno borghese, in cui campeggiano un tavolo e due sedie anni ’30, un vecchio armadio con anta a specchio, e in primo piano, sulla destra degli spettatori, una gabbietta con dentro un canarino vero e incurantemente canterino. Ed è la gabbia, la prigione, forse, la cifra simbolica dello spettacolo, metaforicamente impressa dalla presenza della gabbietta, il cui abitatore prende il ruolo di vero e proprio partner del monologare di Karl; il quale, per tutto il primo atto, soltanto a lui si rivolge, come a un complice, o a un amico, salvo poi ogni tanto farci percepire il fuori, l’esterno, con repentine fughe alla finestra per urlare qualcosa in strada; ed è la finestra della sala, quella vera, ad essere letteralmente aperta sul fuori reale di Milano, dintorni di Corso Lodi.

 

foto di Luca Manfrini

 

Si legge nel libretto di sala che la prima versione, quella del 2000, presentata a Santarcangelo, Federico Tiezzi e compagni la misero in scena in due diversi appartamenti del piccolo centro romagnolo, facendo coprire a piedi agli spettatori, con una passeggiata, la distanza che separava le due sedi.

La casa come spazio zero del teatro, come occasione per far deflagrare realtà e finzione scenica, realtà e metarealtà; per mettere in scena ancora una volta l’ambiguità del teatro, quella fertile, che si nutre della domanda su che cosa sia la realtà, i cui diversi livelli coesistono e si rimandano l’un l’altro in un gioco pressoché infinito di specchi. Ecco, questa impostazione appare chiaramente anche nella versione più canonica dello spettacolo vista al Parenti. Senonché il passaggio da una casa all’altra è segnato anche qui da uno spostamento del piccolo gruppo di spettatori, forse una sessantina, che esce dalla sala 3 di poco preceduto dagli attori, per insenarsi, dopo una rampa di scale, in una salettta dove la soglia tra teatro e casa si sposta decisamente a favore della seconda: con gli spettatori che camminano sul grande tappeto dove Massimo Verdastro/Robert sta cercando  di mandare a memoria la parte di Re Lear, e dove  ad arredi quasi sfarzosi (le due poltrone in damascato rosso) si contrappongono smilzi mobiletti e accessori in stile anni ’60. E’ vero, noi spettatori, della presenza dei due fratelli, subiamo il fascino sia per l’accidentato procedere del dialogo, sia per i momenti di pausa, di inedia, dove si polverizza la fitta architettura della chiacchiera, e in cui non sembra succedere nulla. Dove i due si dimenticano l’uno dell’altro e s’inoltrano lungo proprie gestualità rituali, o pensosità, il cui correlativo è sempre un oggetto, un elemento concreto (la gabbietta, i bicchieri, il giornale, il lettore cd, al quale Robert si affida, a un certo punto, per una languorosa, stupenda ed estenuata sequenza di solitario tango). In questa danza del poco, del pochissimo, dove il meticoloso e insieme noncurante atto del vestirsi di Karl corrisponde quasi a una ricostruzione della propria identità davanti a noi spettatori, riattinta al ricordo della moglie defunta, è straordinario soprattutto Sandro Lombardi.

Con una souplesse che contrasta la gravità di un corpo percepibile nella sua più che accennata pinguedine, Lombardi danza la propria recitazione con una naturalezza che in principio sembra in bilico tra eccesso e difetto di teatralità: come quando carponi cerca la limetta per le unghie e pare un qualunque vecchietto alle prese con le sue sbadataggini, reso con una sorta di negligenza, con una rapidità di segno che lascia l’impressione di un abbozzo – quanto mai esatto, però – come a evitare il pericolo della macchietta; o quando il procedere di una vocalità al limite tra artificio e naturalezza sembra decisamente propendere – è un attimo – per il primo livello, e assumere viceversa, subito dopo, un andamento naturale, apparentemente privo di virtuosismi, tuttavia sostenuto da una notevole varietà di toni, epperciò virtuosistico al massimo. Recito ma non recito, sembra dire Lombardi; mi muovo continuamente sulla scena, ma danzo; mi vesto, ma ero già vestito (ché voi spettatori non avete quasi percepito i passaggi dall’una situazione all’altra). Pura magia d’attore.

 

FRANCO ACQUAVIVA

L’apparenza inganna di Thomas Bernhard, con Sandro Lombardi, Massimo Verdastro, regia Federico Tizzi – visto il 2 aprile 2017 al Teatro Franco Parenti di Milano