Uomo in mare, le prose di Günter Kunert

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Finché dura…

Devo ammetterlo, sono molto infastidito dalla valanga di iPad che mi vengono sventagliati sotto al naso, mi da un po’ danno ma soprattutto genera la mia proverbiale invidia. Non so assolutamente a cosa servano, ma c’è una splendida pubblicità della versione per iPad del quotidiano Newsday in cui mi viene spiegato che c’è un solo uso per cui la versione cartacea è migliore della versione online. Cercatevelo sul vostro tubo Why newspaper is always better than iPad.

Ad essere onesti, mi è capitato tra le mani un kindle di Amazon, un wireless reading device. Ebbene sono rimasto stupito, si legge bene. Lo schermo si trasforma in una pagina di carta opaca e si legge bene.

Anche se non potrò mai abbandonare la carta stampata, io feticista del libro non potrò mai tradirlo con un schermo in grafite, per quante possibilità possa esso offrire. Ebbene sì, io sono quello che le statistiche, è vero, definiscono un lettore forte… (I like IKEA, lo trovate nell’ultima fatica di Giovanni Nadiani, Low Society, che Poldo ha recensito così bene su Gagarin di dicembre).

Detto questo parliamo quindi di carta, lettura, scrittura e Nadiani, che ha curato la raccolta (e la traduzione di) Uomo in mare, una serie di meravigliose e illuminanti prose di Günter Kunert. L’ho inserito subito nella schiera dei miei maestri di scrittura. Nadiani in questa raccolta ha voluto mostrare tutte le frecce di cui dispone l’arco della prosa di Kunter, dall’elzeviro al racconto breve, dalle parabole agli aforismi. Kunter, classe 1929, tedesco di madre ebrea, ha capito bene che tipo di animale è l’uomo, e che tipo di animale è l’uomo che scrive (e qui mi ci metto anche io se permettete).

Perché scrivere. Scrivere: perché scrivere non costituisce nulla di definitivo, dando invece solo impulsi; perché si tratta di un incessante inizio, di una prima volta sempre nuova, come il coito o il dolore. Finché si scrive la rovina è bandita, la caducità non ha luogo, perciò scrivo: per sopportare il mondo che senza pausa si dissolve in nulla. Io, almeno per alcune ore, ho disertato il mio essere, questa baraonda talvolta autodistruttiva, questa snervante colluttazione.

Lapidario e subito fatto mio: Scrivere è salvarsi dalla morte, finché dura.