Conversazione 1: Pietro Saitta, sociologo

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Pietro Saitta

Pietro Saitta, dell’Università di Messina, e’ studioso e professore al Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e degli Studi Culturali.

Pietro e’ un amico distante, stimato studioso con un passato da punk-rocker, con uno sguardo sempre attentissimo alle marginalit e ai risvolti sociali delle politiche pubbliche

A lui abbiamo chiesto di aprire questo ciclo di Conversazioni sulla Libertà, che partono dall’attualità e toccano anche la libertà di pensiero, di espressione, e delle arti, sullo sfondo dell’epoca del Coronavirus.

Tolte le diverse declinazioni della “distanza sociale” in atto nei vari stati, esiste, e si sta intravedendo – magari proprio dall’osservatorio speciale della tua professione – un limite oltre al quale la tutela statistica della salute rischia di ammalare troppo una civiltà, da altri punti di vista?

“Indubbiamente sì. Ma prima di parlare d’altro, resterei un po’ nell’ambito della salute.

Il distanziamento ha come fine la preservazione di un aspetto della salute nell’interesse della maggior parte possibile delle persone. Ma l’effetto del distanziamento protratto è quello di intaccare molti altri aspetti che compongono questa stessa idea di salute. La salute psichica in primo luogo.

Il distanziamento, infatti, ha implicazioni non troppo pesanti per chi dispone innanzitutto di un equilibrio psicologico, di una disponibilità tecnologica che gli permetta di supplire all’isolamento fisico attraverso il potenziamento delle relazioni digitali; oltre di reti sociali composte da individui che abbiano la stessa disponibilità e, infine, che possieda del capitale che gli permetta o di non preoccuparsi troppo dell’inattività oppure di non preoccuparsene affatto se per caso ha un lavoro pubblico o qualsiasi altro tipo di risorsa.

Per chi è escluso da tutto questo in parte o per intero, oppure per chi non è in una condizione di equilibrio psicologico, il distanziamento può acquisire significati molto più tetri.

Per non parlare, inoltre, di chi è costretto a subire relazioni e convivenze intollerabili. Oppure di chi ha una gamma di patologie che varia da quelle minori – una dentiera da risagomare, per esempio – a quelle estremamente gravi, il cui trattamento è indefinitamente posticipato.

È evidente, dunque, che la salute gioca un ruolo fondamentale.

E in questo quadro di distanziamenti dagli effetti disuguali, è chiaro che la società rischia di ammalarsi ulteriormente e non in termini metaforici.

Più in generale, la mia idea è che le catastrofi in senso lato non creino condizioni veramente nuove. Rendono solo più evidenti le relazioni, le tendenze, le strutture latenti e i tic preesistenti. Per esempio, penso sia vero che nella risposta politica alla pandemia aumenti, per così dire, la possibilità autoritaria. Ma questa svolta era già implicita nella direzione intrapresa dalle tecnologie, nel sicuritarismo delle politiche e nella prevalenza di una cultura politica fondata sulla dicotomia amico-nemico, nelle politiche del decoro, nella devoluzione dei poterei alle Regioni e in una infinità di altre cose.

Cosicché oggi vediamo governatori e sindaci autoritari che emanano ordinanze restrittive e ridicole, sistemi sanitari fondati sulla competizione che crollano, cittadini che vogliono essere protetti e sono felici delle restrizioni e così via. Ma tutto questo esisteva, e veniva, ben prima della pandemia.

Tutte queste sono dunque solo “malattie” che oggi si manifestano e diventano visibili a tutti, e non soltanto ai clinici. Ossia ai critici sociali, ai sociologi, agli attivisti o chi queste cose le dice da tempo. Non c’è dunque una patologia sociale che deriva dalla pandemia, ma tanti mali sociali di lunga durata che si slatentizzano”.

Può esistere una cultura europea, a maggior ragione mediterranea, senza una agora’ fisica, senza un contatto fisico?

“Non so quanto si possa generalizzare. Parto dunque da me, cercando comunque di individuare dei punti validi in generale. Per quanto mi riguarda, la mia esperienza è legata all’università e a una disciplina per certi aspetti individuale come la Sociologia. O, comunque, decisamente più individuale di altri ambiti, come quelli delle scienze di laboratorio, che sono molto più collettive. Inoltre non suono più da molti anni e tralascio dunque quell’aspetto, anche se credo che ci siano diversi punti di contatto tra il lavoro di un “umanista” e quello di un musicista.

Partirei dunque dal punto di vista che, anche in tempi di pace, il lavoro universitario può contemplare molto isolamento. Eccetto naturalmente il caso di quelli che si fanno coinvolgere dalla vita delle commissioni e dal lavoro burocratico. Ma per gli altri, levato il tempo della didattica, del ricevimento e altri impegni – per esempio quello per reperire i dati, fare interviste o ricerca sul campo – la vita di chi fa ricerca è spesso fisicamente distanziata. Ma questa vita distanziata – specie se non sei più giovanissimo e hai delle fitte reti costituite negli anni del “libero movimento” (che comunque torneranno) – è contemporaneamente una vita molto sociale e, almeno in alcuni casi, discretamente cosmopolita. È una vita fatta di richieste di leggere e valutare saggi considerati dalle riviste per una pubblicazione; di inviti a contribuire a numeri speciali di riviste; oppure di fare interventi a convegni, anche attraverso Skype (e ben prima di Covid). E parlando di questo, dovremmo dire qualcosa dei “forzati di Skype”. Ossia di quelli che consumano ore e ore attaccati a quel programma discutendo con colleghi provenienti da ogni dove del prossimo convegno da organizzare, del prossimo volume collettaneo da pubblicare o del prossimo bando europeo per la ricerca.

Alla luce di questo direi dunque che esiste già da tempo uno spazio globale della ricerca che è anche relativamente scorporato. Ossia fatto di modalità di incontro in remoto, oppure di scambi puramente intellettuali assegnati a file che viaggiano su e giù per Internet.

E la stessa cosa, naturalmente, esiste ormai da almeno vent’anni pure per la musica.

Io sono un vecchio punk-rocker e la musica non saprei farla al di fuori dei modi analogici. Ma da almeno vent’anni conosco gente che la musica la fa creando sezioni che vengono inviate dall’altra parte del mondo, integrate e poi rinviate, giù fino a farne un disco, un cd o un file da vendere su una piattaforma. Quindi anche in questo caso esiste da decenni un mondo culturale molto cosmopolita che prescinde dalla presenza fisica per gran parte del tempo”.

Partiamo dal lato puramente pragmatico, forse scontato. L’Arte e la Cultura sono anche mestieri, e non solo il mestiere di chi va sul palco. Realisticamente come vedi il ritorno in pista? Ci può essere, con quali accorgimenti e con quali strategie? E con quali condizioni di partenza, a vostro parere?

“Non saprei bene come rispondere. In primo luogo la ripartenza – se mai sarà lineare; ossia non contrassegnata da brusche marce indietro dovute a nuove impennate nei contagi – non seguirà logiche strettamente scientifiche. È probabile che sarà condizionata più facilmente dalle istanze del mondo industriale che conta, cosi ché gli effetti si rifletteranno a cascata anche sugli altri settori. Bisognerà dunque tenere in conto la possibilità di ritardi anche consistenti tra la ripartenza dell’economia di produzione e di quella, diciamo, dell’immateriale.

Venendo a quest’ultima – che è l’industria culturale – si può immaginare che la ripresa sarà estremamente lenta perché in questi mesi si sono bruciati tantissimi piccoli capitali, ovvero il risparmio di questa miriade di piccole imprese, che vanno dalle case editrici alle librerie ai club dove si suona musica internazionale. Questo capitale – che peraltro è spesso esiguo, dato che parliamo di attività che sono nella maggior parte dei casi sempre in bilico, se non in perdita – è costituito tanto da parti collegate all’impresa quanto dal risparmio personale dei singoli imprenditori culturali. Il secondo (il risparmio personale), insomma, va spesso a sostenere il primo (il capitale d’azienda). Inoltre le aziende culturali che producono anche beni materiali, come le piccole e medie case editrici, hanno praticamente bruciato i soldi spesi nelle tirature dei primi mesi dell’anno e dovranno necessariamente ripensare la programmazione dei prossimi mesi, perdendoci due volte: la prima per effetto del vecchio invenduto, la seconda per effetto della riprogrammazione dei titoli che potrebbe indurre molte case a ridurre il numero delle uscite (salvo rifarsi sugli autori o sui dipartimenti universitari tramite i contributi alla pubblicazione, come del resto è comune, specie nel caso dell’editoria accademica). Inoltre il portafoglio dei clienti è senz’altro più vuoto e quindi quello che era già un mercato in forte contrazione, si ridurrà ulteriormente.

Analogamente i club potrebbero non investire sui gruppi più costosi, spesso esteri, ed essere costretti a rimodulare completamente la propria offerta puntando sull’economico e il locale. Gli effetti di cui sto parlando, è inoltre da sottolineare, riguardano la prossima stagione e non quella presente, che, per giunta, è al termine in ragione della pausa estiva. E parlando di estate, c’è anche il capitolo festival, che ovviamente non partiranno. Insomma la ripresa – ma questo è assai banale a dirsi – sarà estremamente lenta e differenziata a seconda dei sotto-settori. Inoltre immagino che molte attività potrebbero essere costrette a uscire dal mercato. E terrei sempre in considerazione l’ipotesi di una ripresa a “yo-yo”. Ossia la possibilità che il de-distanziamento possa essere interrotto a un certo punto per il riaggravarsi della situazione. Non sono dunque molto ottimista e prevedo tempi lunghi prima di potere tornare a regime in un quadro quantitativamente e qualitativamente diverso da quello di inizio anno”.

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