Allenare il dibattito culturale giovanile

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In copertina: Carlo Lucarelli durante il club del libro a Mordano
In copertina: Carlo Lucarelli durante il club del libro a Mordano

Come probabilmente avrete capito dalla nuova rubrica libresca, il Flood – Centro Giovani di Mordano per me è ormai un luogo familiare. Qui, ogni prima domenica del mese, partecipo al Floodbook, il club del libro: di solito è una cosa inter nos, dove “nos” sta a indicare tutti coloro che abbiano voglia di passare una sera a parlare di libri. E visto che questa definizione è valida per un sacco di gente, all’ultimo incontro c’era anche Carlo Lucarelli, noto scrittore di noir. Ok, non si è materializzato all’ingresso, lo abbiamo invitato noi: il contatto è stato semplice, abita a Mordano da molti anni e ha dimostrato da subito molta disponibilità. Alla fine della serata, Lucarelli ha detto:

Mi sono divertito tantissimo. Posso tornare?

Testuali parole, che non sono sembrate di circostanza. Da qui è nata una riflessione, mi perdonerete se la prendo un po’ alla larga.

Sono un’assidua frequentatrice di corsi di scrittura – narrativa, ma anche di stampo giornalistico e aziendale – e quando posso partecipo a conferenze e incontri letterari, piccoli o grandi che siano. In queste situazioni si conoscono gli autori e spesso chi organizza esorta al confronto per trasformare gli uditori in partecipanti attivi. Ma che sia metaforica o reale, in questo rapporto a due, tra pubblico e scrittore, quasi sempre c’è una distanza incolmabile: loro su un palco, loro dietro una cattedra. Noi in platea, in fase di apprendimento, anche durante la presentazione di un libro. Non è una critica, sono i momenti in cui si supera la lettura e si entra nell’analisi del testo, da cui scaturisce sempre un’analisi del contesto: prima quello del libro, poi quello del lettore. Le basi del pensiero critico si acquisiscono a scuola e poi lo si mette in pratica all’esterno. Eppure, a questi eventi culturali spesso i giovani e giovanissimi non ci sono.

Se partiamo dal presupposto che questo sia un problema per tutti (se non siete d’accordo sarò ben felice di leggere i vostri commenti su perché riteniate che lo scarso interesse dei giovani per l’arte largamente intesa non sia motivo di preoccupazione per il futuro), c’è da chiedersi: come rimediare?

Sicuramente un buon metodo è questo: non aspettare che i giovani vengano da noi, ma andare noi dai giovani.

Lucarelli ha stimolato i ragazzi e le ragazze del Floodbook all’ascolto e alla riflessione, accogliendo opinioni e sensazioni e restituendole dopo averle inquadrate in un contesto più ampio, dato dalle sue conoscenze. Il merito, però, non è solo dello scrittore: l’incontro è stato pensato in modo tale che al centro ci fossero i ragazzi, non l’ospite, affinché si creassero le condizioni per un contraddittorio.

Fin da subito, infatti, si è deciso di impostare la serata come un momento di condivisione paritaria. Un do ut des in cui l’esperto si è messo in una condizione di ascolto che ha incoraggiato i presenti a costruire un dialogo e a scoprire cose nuove. Che oggi sono i meccanismi dietro la struttura di un romanzo giallo, domani la voglia di cimentarsi nella scrittura, scrollando una volta in meno il feed di Instagram.

Alla fine, si sono divertiti loro e si è divertito lui, che non ha venduto neanche un libro: non era lì per questo. Forse, nei giorni successivi un ragazzo del Flood è andato in libreria a comprare il suo ultimo romanzo, o avrà ascoltato i suoi podcast; tra poco sarà il compleanno di un amico e gli regalerà un giallo. Magari non di Lucarelli, magari in questo momento a Mordano stanno registrando un’impennata di vendite di autori svedesi. E chissà, il prossimo libro di Lucarelli potrebbe essere diverso dal solito per un determinato un aspetto letterario su cui ha riflettuto tornando a casa… In ogni caso, c’è stata un’attivazione che, in qualche forma, contribuisce al mantenimento di un substrato culturale che potrebbe mostrare risultati sul lungo termine. È stato possibile grazie a un’impostazione, scelta dal direttivo del Flood, in cui i protagonisti sono stati coloro che ancora non sanno, che ancora devono scoprire.

A onor del vero, sebbene sia stato tutto molto bello, quello che è successo non è abbastanza. I partecipanti del Floodbook sono studenti universitari o neo lavoratori, persone con una dose di autonomia che permette loro di spostarsi e trovare un dimensione in cui esprimersi e allenare il pensiero anche lontano da casa. Fino a due anni fa neanche loro avevano un luogo di ritrovo nella piccola realtà mordanese, perciò bisogna essere fieri della presenza del Flood e della rete che si è venuta a creare con altre associazioni e con la biblioteca del paese. Questo, però, non deve essere un traguardo, ma una tappa su un percorso che vuole raggiungere una fascia di popolazione ancora più giovane. Sono gli adolescenti, infatti, ad aver bisogno di occasioni vicine in cui formare il proprio patrimonio intellettuale, culturale ed emotivo. In questo momento storico la loro curiosità passa attraverso i social: i content creator parlano un linguaggio simile ai loro interlocutori e li invitano a fare esperienza, ma il mezzo comunicativo implica un’interazione passiva rispetto al confronto diretto; ecco, quindi, che il ciclo di apprendimento teorizzato da Kolb si blocca sul nascere e il loro pensiero rimane acerbo, oltre che inascoltato.

Parlandone con un amico, il discorso si è allargato al ruolo della scuola. La mia opinione è che, dopo la famiglia (a volte in sostituzione ad essa, purtroppo) l’istituzione scolastica debba essere il principale luogo sicuro di educazione, ma è un dato di fatto che i ragazzi e le ragazze tendano a rifiutare alcune opportunità, se legate a contesti obbligati. Richiedono, quindi, uno sforzo maggiore e collettivo per creare uno spazio alternativo dove mettersi alla prova. Altrimenti si allontaneranno dal paese o dalla città, ma non per andare a un concerto o al Festival della letteratura: solo per annoiarsi da un’altra parte.