Chiara Guidi, Les Moustaches e Luigi D’Elia: tre modi/mondi, a Colpi di Scena 2020

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Edipo. Una fiaba di magia - foto di Eva Castellucci

 

Alla Biennale di teatro contemporaneo per ragazzi e giovani a cura di Accademia Perduta Romagna Teatri abbiamo incontrato tre creazioni che incarnano altrettante peculiari, affatto distanti prospettive di sguardo sull’accadimento scenico. Alcune brevi note.

Le fu chiesto: “Donde sei venuta?”.
“Dall’altro mondo”.
“E dove sei diretta?”.
“All’altro mondo”.
“E cosa fai in questo mondo?”.
“Me ne prendo gioco”.
“E in che modo te ne prendi gioco?”.
“Mangio del suo pane, e compio l’opera dell’altro mondo”.

La citazione di Rābiʿa al-ʿAdawiyya al-Qaysiyya, mistica araba musulmana dell’VIII secolo, posta in esergo al denso volume edito nel 2019 da Luca Sossella Teatro infantile. L’arte scenica davanti agli occhi di un bambino di Chiara Guidi e Lucia Amara pare appropriata per dare avvio a un breve cenno sull’ultimo approdo di una pratica scenica, massimamente intrecciata a un articolato e al contempo elementare atto di pensiero, che la cofondatrice della Societas pratica da quasi tre decenni.

Edipo. Una fiaba di magia, questo il titolo della creazione che ha aperto l’edizione 2020 della Biennale di teatro contemporaneo per ragazzi e giovani a cura di Accademia Perduta Romagna Teatri, incarna infatti una delle principali accezioni del significato etimologico del termine teatro: luogo della visione.

 

Edipo. Una fiaba di magia – foto di Eva Castellucci

 

Questo exemplum di teatro misterioso e misterico, interrogante e dubitativo accade in una caverna: come non pensare a Platone, in bilico tra l’esigenza di conciliare le conclusioni di Parmenide sull’immutabilità di ogni cosa e l’evidenza del divenire che si riscontra nella realtà sensibile, nel mutamento che si riscontra nel quotidiano?

Un giovane soldato ferito, viaggatore-filosofo: “Io chi sono?” chiede e si chiede.

Si imbatte (fortuitamente, direbbe Deluze) in esseri primordiali: funzioni sceniche con voluminosi costumi, posture raggomitolate e volti celati – a farsi segno largo, non riconducibile alla soggettività dell’attore (all’opposto dell’approccio di Luigi D’Elia, come diremo fra poche righe) compongono un dramma di voci e minime azioni brulicanti, al contempo simboliche e concrete.

En passant si cita La terra desolata di T.S. Eliot, la talpa si chiama Tiresia come l’indovino della mitologia greca, certi giochi di luce paiono diretti richiami a Mark Rothko, alle sue tele fatte di materia cromatica pura, vibrante: nel lavoro del celebre statunitense quanto in quello di Chiara Guidi pare evidente una idea di arte come teofania, ricerca di altro, tentativo di circoscrivere l’indicibile, avventura della conoscenza.

Sarebbe grandemente interessante verificare -Covid permettendo- la reazione di una platea di bambini (questa creazione è indicata dagli 8 anni in su) multilingue (come sono oggi le nostre classi e scuole) alla sottile complessità di questi temi e al loro incedere dilatato sulla scena: il dubbio -appunto, da verificare- è la tenuta di una grande platea (le dimensioni produttive ed economiche di questa creazione non consentono i piccoli gruppi di bambini con cui Chiara Guidi in altri progetti ha a volte lavorato) di persone che non hanno, a priori, il rispetto per l’autorevolezza che la cofondatrice della Societas si è saputa conquistare negli anni.

 

La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza – foto di Piero Tauro

 

Mpalermu di Emma Dante e Macbettu di Serra vengono in mente guardando La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza di Les Moustaches.

Se la creazione di Chiara Guidi si costituisce di esplorazione/interrogazione, questo lavoro mette in scena una condizione.

Un padre, due fratelli. Uno dei due, come il padre, ha fisico asciutto, scatti nervosi, mascolina aggressività. L’altro, oltremodo paffuto e in tutù rosa, ostende una propria soggettività altra, differente.

La lingua di scena è una sorta di grammelot pastoso, terroso.

Con un tavolo e qualche cassetta di legno da frutta e verdura i tre personaggi creano immagini, ambienti, danno ritmo a una contrapposizione che non evolve in alcun particolare dramma ma, al contrario, certifica uno statuto di rivendicata alterità.

Cruda realtà vs sogno lirico, oggetti spostati con foga vs una manciata di farina lanciata in aria a farsi aura di ballerina: una contrapposta posizione nel mondo presentata in apertura e di fatto protratta per tutta l’ora di spettacolo.

Siamo di fronte a un esempio -composto con artigianale sapienza d’attore- di spettacolo a tesi: questa difficilissima storia incarna la tensione tutta adolescenziale (è proposto dai 16 anni in su) alla libertà di essere come si vuole.

Si tratta di un’impostazione individuata, vien fatto di azzardare, per l’innegabile capacità comunicativa e per il possibile diretto rispecchiamento personale del (giovane) pubblico, anche grazie al limitato numero di significati e significanti messi in campo.

In questo senso, e al di là dello stile della messa in scena, La difficilissima storia della vita di Ciccio Speranza potrebbe essere considerata una produzione contemporanea, ennesimo esempio di una tendenza affatto diffusa (anche se ovviamente non onnicomprensiva) alla riduzione dei segni e dei significati che il fatto scenico veicola: chi frequenta Festival e rassegne attente al panorama contemporaneo sa che abbondano creazioni che dicono una cosa, che portano un segno.

 

Moby Dick – foto di Valentina Morricone

 

In tutt’altra direzione muove il Moby Dick riscritto da Francesco Niccolini e interpretato da Luigi D’Elia.

Una maestosa e al contempo ariosa scultura praticabile in assi di legno e ferro battuto in centro scena (come non pensare ai poetici capolavori di Fausto Melotti?) si costituisce come luogo d’azione di D’Elia, che in questo spettacolo vira nel proprio percorso artistico da una consolidata modalità da narratore a uno stile istrionico affatto marcato.

Intendiamo, con questa distinzione, evidenziare la distanza tra l’approccio di chi si fa veicolo “trasparente” di storie e figure altre da sé (modalità che D’Elia pratica da molti anni con ottimo successo) e chi -dall’antica Roma in poi, come ci insegnano i libri di storia- si pone in prima persona di fronte allo sguardo dello spettatore come nucleo e oggetto di ammirazione.

Un piccolo esempio può chiarire questa distinzione ai non addetti ai lavori: l’interesse per il teatro-canzone di Giorgio Gaber prescinde(va) dai titoli delle canzoni o dei monologhi in scaletta – è lui che si va (andava) a vedere, ascoltare, applaudire.

Dal punto di vista scenico, in Moby Dick ciò si realizza in una convergenza dei diversi elementi (luci, musiche, scenografia, …) a enfatizzare il protagonista e ciò di cui, con pacata sicurezza, egli è latore (in questo caso il celebre romanzo di Melville, riscritto e sintetizzato con sapienza da Niccolini, che crea una drammaturgia “a cannocchiale” che a tratti si concentra su minuti dettagli per poi guardare a sorvolo ampi stralci della vicenda, dando un ritmo sincopato e variegato alla fabula).

Un’idea classica di artista come portatore di téchne, di perizia che lo distingue dal non-artista sta alla base dell’efficace patto che D’Elia instaura con la platea (e i molti Bravo! gridati a gran voce al termine dello spettacolo da un pubblico non semplice come quello di Colpi di Scena, composto essenzialmente da operatori teatrali, ne sono riprova) unito alla scelta certo commercialmente efficace di rimettere in scena con variazioni una storia nota (basti pensare che nel sistema del Teatro Ragazzi i titoli che da sempre hanno maggiore successo sono le molte riscritture di Cappuccetto Rosso e simil) ne fanno un nome di cui si sentirà sempre più parlare, negli anni a venire.

Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950

 

MICHELE PASCARELLA

 

Spettacoli visti a Forlì rispettivamente il 22, 23 e 25 settembre 2020 – info: https://www.accademiaperduta.it/colpi_di_scena_2020_-1510.html