La controversa bellezza de La ragazza Carla di Elio Pagliarani

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Brevi note a uno storico poemetto, a partire dalle domande suscitate dalla sua rilettura.

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Il Saggiatore ha ripubblicato, fedele alla prima edizione Mondadori del 1962, un testo entrato nella storia della poesia -e più in generale della letteratura- italiana contemporanea.

Lungi da noi avanzare la pretesa di poter dire qualcosa di nuovo rispetto a ciò che ben altre teste hanno pensato e detto su questo celebre poemetto, ci limiteremo a condividere alcune domande elementari -nel senso letterale del porre attenzione su alcuni elementi costitutivi- che la sua rilettura ha suscitato.

Nella densa prefazione di questa nuova edizione, Aldo Nove parla de La ragazza Carla come di un «poema polifonico», citando anche la celebre definizione del cinema data da Ėjzenštejn: arte del montaggio.

Arte: con buona pace delle rivoluzioni che da un secolo a questa parte le varie Avanguardie hanno faticosamente realizzato, al giorno d’oggi prevale la vulgata che al termine arte stia molto vicino un’idea canonica di bellezza (da qui il titolo dato a queste poche righe).

È altresì vero che, in massima parte, gli autori e le opere che vengono storicizzati sono quelli che presentano una frattura rispetto a un sentire consolidato.

Qual è, dunque, la bellezza che si può leggere fra le righe di questo poema?

Nel sentire comune, figlio di una idea settecentesca di bello come imitazione della natura, la stretta relazione figurale tra opera e mondo è considerata indice di artisticità, secondo un meccanismo (alcune volte consapevole, tante altre no), per il quale solitamente esclamiamo «Meraviglioso, sembra vero!» (o anche: «È come una fotografia!») di fronte a un disegno raffigurante, ad esempio, un albero.

Forse la bellezza proposta da Pagliarani sta nel raccontarci «un piccolo fatto vero», per dirla con il suo amico e collega Edoardo Sanguineti?

 

 

Torniamo al secondo dei termini utilizzati dal grande regista russo: montaggio.

Nella classicità greca, com’è noto, la téchne identificava l’artigiano / artista (significativo che non vi fossero due termini distinti, per segnalare le rispettive funzioni) nella capacità di fare qualche cosa che il non artigiano / non artista non sapeva fare.

Perizia di realizzare qualcosa dal nulla come indice di artisticità.

In tal senso ricordiamo le levate di scudi che, ad esempio, ebbe la fotografia ai propri esordi: immagini di poco valore perché realizzate da una macchina senza l’abilità necessaria a un pittore per fare altrettanto, come lamentava -tra gli altri- un inaspettatamente conservatore Charles Baudelaire.

Dunque: il montaggio di linguaggio “già fatto” (peraltro a tratti banale, aziendale e burocratico, come il freddo dettato del manuale di dattilografia che con ogni probabilità l’autore non ha neanche del tutto inventato, ma solo appunto assemblato) come può, nel pensiero comune, essere avvicinato all’idea di arte, di bello?

Ricordiamo una signora che, criticando con veemenza alcune opere di Maurizio Cattelan aggiunse, per dar forza al proprio discorso: «E poi non le ha nemmeno fatte lui!».

Infine, onta massima, l’autore non esprime nulla di sé, almeno programmaticamente: è noto -ed è raccontato nella Cronistoria minima posta in fondo al volumetto- come Pagliarani abbia deciso di comporre un poemetto narrativo, «con la sua brava terza persona» proprio per combattere la «tirannia dell’io». Salta anche, accipicchia, l’idea romantica dell’artista che dà battaglia ai propri demoni e pulsioni interiori per addivenire alla creazione di un’opera che in qualche modo ne è la manifestazione.

A fronte di tutto questo -che è poco elegante ma al contempo forse opportuno ricordare se si ragiona di azioni editoriali (dunque culturali) rivolte ai molti e non solo a una nicchia di appassionati- pare di valore la rimessa in circolo di questo testo.

Per due motivi prosaici: è un libro di poche pagine (dunque forse non spaventa eccessivamente, affrontarlo) e costa poco.

E per un motivo sostanziale: perché propone una idea -e una pratica- di arte e di bellezza altre.

Tanto ancora si potrebbe (e forse si dovrebbe) dire sulla sublime capacità di Pagliarani di far svolgere a tutto il linguaggio, comune e non, funzione poetica, sull’invio del dattiloscritto a Pier Paolo Pasolini conosciuto a casa di Roversi nel 1958 in occasione di una riunione aperta della redazione della rivista Officina (altri tempi, altri orizzonti!), sul suo riferirsi a Eliot, teorico della rinascita contemporanea del romanzo in versi e a Brecht, il cui teatro epico voleva stimolare uno sguardo critico sul mondo, sulla chiusura del poemetto che, come ha scritto Enrico Testa, «congedandosi da lingua d’uso e banalità quotidiane risale sui picchi della letterarietà e ricorre la suo verso canonico (l’endecasillabo)». Ma questi son questioni da storico, o da critico, lontani dal presente discorso.

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MICHELE PASCARELLA

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Elio Pagliarani, La ragazza Carla, Edizioni il Saggiatore, Milano, 2021 – pp. 64, € 15 – info: https://www.ilsaggiatore.com/libro/la-ragazza-carla-2/

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