Anello della Pietramora-Grotte delle Fate

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L’anello parte dalla Chiesa di Santa Barbara, un edificio la cui prima attestazione è del 1290, punto di arrivo alla cima della Pietramora per chi ha risalito il colle venendo da Marzeno. Prima di tutto, perché Pietramora? Il nome deriva dalle cave di pietra presenti sin dai tempi dei romani, motivo per cui in molte carte geografiche antiche il nome di questo colle è indicato solamente come “Pietra” (in dialetto infatti ci riferisce ad esso come Pre); l’aggiunta dell’aggettivo “Mora”, invece, è data dal fatto che la pietra qui estratta, ossidandosi, assume un colore più scuro.

La parte iniziale è semplice da percorrere: zaino in spalla, si comincia a camminare lungo la strada asfaltata che porta a Marzeno, e per qualche centinaio di metri – forse un chilometro – ci si gode il dolce saliscendi fino all’incrocio con via Gabellotta; il nome di questa via, secondo varie ipotesi, viene da “gabella”, termine che veniva utilizzato per le tasse di frontiera (in queste zone si sono estesi diversi confini politici nel corso dei secoli). Lungo questo tragitto, sulla propria destra si può godere del panorama su Faenza; un ottimo inizio per questi 11 km che, gradualmente, ci faranno addentrare nel versante più incontaminato e selvaggio del colle. Ai lati, la strada è ogni tanto costellata da case sia di autoctoni, sia di persone che hanno investito sulla serenità quotidiana che si può respirare quassù. Se si è fortunati, camminando in silenzio si potranno scorgere lampi di una vita contadina di altri tempi, lenta, la cui placidità è quasi tangibile. A mio avviso, scorgere questi dettagli può dare, in poche centinaia di metri, la stessa sensazione di allontanamento dalla vita frenetica quotidiana che si cerca in camminate di diversi chilometri nel verde fuori città.

Ad ogni modo si prosegue lungo via Gabellotta, che troviamo sulla sinistra. Dopo circa un chilometro ci troviamo a un bivio: tenendo sempre la sinistra, il percorso continua oltre un malmessa staccionata che doveva essere un cancello, ma che spalancata non ci deve intimorire a proseguire il cammino; dritto dinanzi a noi, invece, vi è una ripida discesa che porta al laboratorio di ceramica Manifatture Sottosasso, una vera e propria chicca del territorio che si merita d’essere scoperta e approfondita.

 

 

Sosta a Ca’ Sottosasso con le ceramiche

Avendo fatto di “Ca’ Sottosasso” (nome attribuitogli sin dal 1500!) la loro casa e laboratorio, Marco e Lorella dal 2002 hanno creato un ambiente a dir poco originale, al tempo stesso moderno ma anche con un richiamo alla tranquillità della vita in campagna; il primo impatto con esso è decisamente familiare e accogliente. Oltre ad avere una propria produzione e portare avanti una ricerca artistica sugli smalti e le forme, si occupano anche di realizzare i progetti di artisti, designers, studi di architettura provenienti da tutta Italia (specialmente da Milano, Torino, Bologna e Roma). Con una produzione colma di rimandi al mondo naturale, fiabesco, verrebbe da dire anche dell’infanzia, ed opere che inseriscono ironia e giocosità in pezzi di uso quotidiano e complementi d’arredo, Marco e Lorella hanno costruito una realtà a dir poco internazionale. Una realtà che penso dia un altro sapore a queste terre apparentemente passive, e che mi trasmette una sensazione di orgoglio per l’intraprendenza e la capacità di innovazione romagnola. Questi due artisti, a mio parere, hanno fatto qualcosa di incredibile: nel pieno rispetto della quiete limitrofa, caratterizzante poi di tutto il colle, sono riusciti a dare vita, dinamicità e se vogliamo anche una nuova identità a una parte di esso persa nella sua silenziosa lentezza, motivo per cui la sua celata beltà è sempre rimasta nell’anonimato.

Mi hanno rivelato che “il fatto di avere il laboratorio in collina, praticamente in mezzo ad un bosco, si è rivelato negli anni essere un valore aggiunto. Abbiamo la possibilità e libertà di organizzare workshop particolari come l’ultimo di questa fine estate sulla Cottura Primitiva della Ceramica. Le persone che vengono a conoscerci avvertono l’energia del luogo. La nostra realtà, Manifatture Sottosasso, è una piccola bottega impregnata di uno stile di vita antico”.

Insomma, non si può non rimanerne affascinati. Dunque, se ne volete sapere di più non vi resta che seguire Marco e Lorella, e rimanere aggiornati sulla loro piccola dimensione.

Lo Spungone

Tornando con la mente al bivio, con le spalle rivolte alla strada da cui siamo arrivati, salutiamo l’imbocco per il laboratorio di ceramica e continuiamo sul sentiero tenendo la sinistra. Nel viale alberato, alla nostra destra possiamo osservare dall’altra parte della valle il colle su cui si ergono i ruderi del castello di Ceparano; ci vuole occhio attento per distinguerli nella vegetazione, ma c’è da dire che essi meriteranno un trekking a loro dedicato per parlarne e scoprirne la storia che, negli ultimi cinque anni, grazie agli scavi archeologici dell’Università di Bologna sta tornando ad essere sempre più chiara. Ma ancora più importante, sul versante di fronte ai nostri occhi possiamo ammirare un elemento unico della zona: lo Spungone (così chiamato per il richiamo all’aspetto di una spugna), il particolare tipo di roccia che si estende da qua fino a Bertinoro, una rarità geologica purtroppo sconosciuta ai molti, e di cui dovremmo informarci di più per essere coscienti dell’ennesima affascinante peculiarità romagnola.

 

 

Il forcone del diavolo

Andando avanti, la strada effettua una curva a sinistra, regalandoci una discesa: fine dell’asfalto. Inizia una strada ghiaiata, che dopo la lieve discesa ci farà risalire il versante della Pietramora che si affaccia verso Modigliana. È una volta risalita questa strada che, a mio parere, inizia la vera anima della passeggiata intrapresa. Ci troviamo di fronte al paesaggio caratteristico di queste terre: i calanchi. Nello specifico, quelli che ci troviamo di fronte sono chiamati, nel locale, “Forcone del Diavolo”; in effetti, lo scorcio così grottesco e quasi scheletrico gli vale questo nome. Il folklore, in questi casi, trova sempre un modo adatto per rendere ancor più suggestivo un panorama che già parla per sé. Qui dobbiamo stare attenti: la strada che dobbiamo seguire è un sentiero sulla sinistra a malapena visibile e a bordo del versante che, a strapiombo, dà sui calanchi; è semplice, seguendolo si deve raggiungere la cima, tenendo quest’ultimi sempre alla nostra destra. Inoltre, le grandi antenne sulla cima sono il nostro punto di riferimento per la meta che dobbiamo raggiungere: le Grotte delle Fate. Tuttavia, se per un attimo deviamo il percorso verso destra, la strada ci porta ad una casa distante circa 100 metri: se la seguiamo, arriviamo alla vecchia dimora di un certo Gaddoni, la cui lapide fa da guardiana all’entrata della proprietà, con la dicitura “in memoria di Alberto Gaddoni, che tanto amò questi luoghi”. Naturalmente, essendo proprietà privata, senza consenso del proprietario non ci si può addentrare nel giardino, che possiede una terrazza naturale con una vista mozzafiato sulla valle di Modigliana. Qui si percepisce vera pace. Sembra quasi che Alberto ci abbia invitato a fare la sosta.

Lo ringraziamo, e tornando indietro continuiamo il sentiero che come abbiamo detto affianca i calanchi sulla sinistra: dopo una salita abbastanza ripida, alla fine di essa ci troviamo in un piccolo spiazzo circolare contornato per la maggior parte da ginestre. Sulla sinistra, a poco meno di una decina di metri, vi è un belvedere in cui poter godere di un altro panorama appagante. Sulla destra, invece, con una meritata discesa continua il nostro sentiero. Arrivati in fondo ad essa, dobbiamo tenere la destra: qui, avendo varcato la cima della Pietramora, ci troviamo a camminare su uno spiazzo che ci fa godere di uno skyline che si avventura nella Romagna forlivese e cesenate; se si ha la fortuna di aver beccato una giornata senza foschia, la vista può arrivare a scorgere la riviera.

Il castellaccio della Pietramora

Come già detto, le antenne sono il nostro punto di riferimento: nello spiazzo su cui stiamo camminando le abbiamo dritte di fronte a noi, e non ci resta che seguire il sentiero che, salendo leggermente, arriva sotto ad esse. Qui, le mappe digitali ci segnalano di essere sopra i ruderi del “Castellaccio della Pietramora”; di esso, tuttavia, non se ne può scorgere la presenza, se non qualche masso isolato che, con la fantasia, possiamo immaginare fosse parte della fortezza. Per fortuna, Maurizio Melandri, storico che abita a Marzeno e da tempo impegnato a tenere salda la memoria di questi luoghi, ci aiuta a saperne un po’ di più:

“Il castello di Pietra Mora apparteneva nel 891 (ben prima dell’anno 1000!) ad Ingeralda, figlia di Aspaldo conte palatino, cioè conte che poteva votare per l’elezione dell’imperatore del Sacro Romano Impero. Ingeralda (in alcuni testi Englarada) era esponente di spicco dell’aristocrazia franco-germanica, dotata di un numero cospicuo di beni fondiari dislocati tra Romania e Tuscia, cioè fra le attuali Romagna e Toscana. Essa, vedova del conte Martino di Ravenna – quest’ultimo appartenente all’aristocrazia militare bizantina e ravennate, dona i suoi beni al figlio Pietro e alla sorella Englarada II, moglie di Tegrimo I di Pistoia, capostipite dei conti Guidi di Modigliana. Narrano le cronache che Tegrimo, attratto dalle voci sulla bella Englarada, andasse a caccia di cervi vicino a Modigliana, sperando d’incontrarla; una volta incontrati, si innamorarono e seguì il loro matrimonio, che diede vita alla famosa dinastia dei conti Guidi di Modigliana. Dei ruderi non rimangono che pochi massi, dal momento che già nel 1190 i faentini assediarono lungamente il castello e lo distrussero; da allora, non vi fu nessun tentativo di ricostruzione, ma anzi le pietre che lo costituivano furono usate dai contadini nelle zone limitrofe per aiutare la costruzione di altri edifici di campagna”.

 

 

Le grotte delle fate

Tenendo i ruderi alla propria destra, se li circumnavighiamo arriviamo al sentierino che ci porterà alle grotte. Per raggiungerle bisogna fare attenzione poiché, nonostante esso sia abbastanza largo, a sinistra abbiamo un dirupo scosceso e roccioso, tanto affascinante quanto pericoloso; vogliamoci bene e guardiamo bene dove mettiamo i piedi. Una ventina di metri ed eccoci alla meta finale e più affascinante del nostro trekking: le Grotte delle Fate, così chiamate per la loro conformazione naturale che, in tempi medioevali, non mi meraviglio abbiano ispirato la gente locale a pensare che potessero ospitare un qualcosa di magico. Tuttavia, la storia di queste cavità rocciose non si ferma al fiabesco, e tra ipotesi e fatti storici appurati si può dire che, lungo i secoli, esse siano stato luogo di riferimento per la popolazione limitrofa. Come ci spiega sempre Maurizio, si pensa che potessero essere stanze (o celle) del Castellaccio, così come rifugio di contrabbandieri lungo i secoli avvenire per non pagare la già citata gabella, ma, soprattutto, il punto di attesa dei partigiani di Virgilio Neri per quell’aviolancio di materiali che fu fondamentale per la sussistenza della Resistenza romagnola del 1944: il 10 giugno di quell’anno, Radio Londra trasmise il messaggio in codice “la bambola dorme” per confermare il lancio, e la scelta del luogo per l’atterraggio fu proprio in questa zona strategica, visto che il territorio circostante era costantemente battuto dai nazisti; furono i fuochi accesi in queste grotte ad indirizzare nella notte il lancio, mossa che permise la buona riuscita della missione; un evento importante, se non cruciale per la realtà partigiana della zona, di cui – oltre alle spiegazioni di Maurizio – ne possiamo trovare un racconto dettagliato anche qui.

Ad ogni modo, le cavità esplorabili sono tre: due inferiori – le prime a cui si accede – e una superiore, accessibile tramite una scaletta. La pausa è d’obbligo: il panorama, incorniciato dalle pareti rocciose, ritengo sia il più bello tra gli scorci ammirabili in queste zone. Una volta contemplato, possiamo tornare indietro: ripercorrendo all’indietro la strada che ci ha portato al Castellaccio, torniamo allo spiazzo dove inizia la salita che porta alle antenne.

A metà di questo grande prato, sulla nostra destra, vi è la traccia di un sentiero che va giù verso la chiesa di Santa Barbara, dove abbiamo lasciato la macchina. Il sentiero fa uno slalom tra due macchie boschive, e nel giro di un quarto d’ora ci riporta al nostro punto di partenza.

 

 

MAGNÊ

Per pranzare le gambe le mettiamo sotto le tavole del Tartufo, ristorante nel cuore di Marzeno. Ad accoglierci ci sarà come sempre il proprietario, Omero: lui, come il resto dello staff, possiede la genuinità romagnola classica dei paesini fuori città.

Essendo della zona, ammetto di venire al Tartufo da molti anni. Mi piace l’atmosfera informale che si crea con i commensali con cui mi trovo a condividere il pasto ogni qualvolta decido di venire a trovare Omero. Sempre allegri, sempre pronti ad accompagnarti in un caloroso brindisi, qualunque sia la circostanza, lasciandomi di buon umore. Non credo sia una coincidenza, mi piace pensare sia dovuto alla sua buona capacità di essersi saputo circondare da una clientela che rispecchia a pieno l’anima del ristorante.

Semplice e soddisfacente così il Tartufo dal 1985, si presenta come ottimo posto dove gustare una qualsiasi specialità romagnola. La pasta, rigorosamente fatta a mano, è una certezza: consiglio tagliatelle e tortelli. Per quanto riguarda il secondo, su consiglio di Omero, ho assaggiato il cinghiale alla montanara, e devo dire che ne è valsa decisamente la pena. Infine, come suggerisce il nome, è rigoroso provare piatti a base di tartufo (quand’è di stagione).

Link per consultare il percorso QUI.

 

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Sono ragazzo faentino di 25 anni fortemente innamorato della propria terra, la Romagna. Le mie passioni principali sono viaggiare praticando trekking, cucinare e scrivere, ma soprattutto la costante ricerca dello stupore: è proprio quest’ultima mia tendenza ad essere la brace ardente che tiene viva la fiamma delle altre. Tutto ciò si traduce in una vita dinamica – a volte troppo – in cui cerco di voler scoprire sempre di più, di passare ininterrottamente da un’esperienza all’altra; e documentare ciò che scopro, cercando di trovare sempre il miglior modo possibile per esprimere le sensazioni che ho provato.