Andante di Faber Teater: ci aspettano ore bellissime

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ph Diego Diaz Morales

 

Critica militante, si diceva una volta: porre attenzione al percorso – e non solo al risultato – di donne e uomini di teatro dall’attitudine artigianale.

Con questa in-tensione sto seguendo, in questi mesi, alcune fasi del lavoro preparatorio di Andante, nuova creazione in cammino di Faber Teater, che si è aperta pubblicamente con un convegno internazionale a inizio marzo (nomen omen: Parole in camminoqui un resoconto di quella ricca giornata) e che troverà nei prossimi mesi alcune occasioni di condivisione con spettatrici e spettatori.

Scopo di questo breve diario è unicamente accennare al lavorio interno, al daffare che ha impegnato un piccolo, pervicace gruppo di artisti a delocarsi, a spostarsi dalle certezze che in una ventina d’anni di lavoro quotidiano si son faticosamente costruite: salutari esercizi di auto-spaesamento.

Piccola parentesi.

Da molti anni -e sempre più- patisco la saccente protervia con cui i più noti, premiati, sostenuti artisti afferenti alla cosiddetta area della sperimentazione (o della ricerca teatrale, o dell’innovazione, che dir si voglia) non fanno che reiterare temi, formule e modi che li hanno -nel sempre più asfittico e miope panorama teatrale contemporaneo- fatti apprezzare, resi riconoscibili e, dunque, vendibili. La standardizzazione, si sa, è alla base del commercio. Ma se ciò è ragionevole parlando ad esempio di panini in un fast food, il cui sapore mi aspetto di trovare uguale che io lo acquisti a Milano o a Palermo, ciò diventa surreale quando è habitus di persone che dovrebbero, anche perché finanziati con soldi pubblici a tale scopo, farsi scandaglio e strumento di lingue inaudite, difformi, altre.

Ma tant’è.

In questo senso il gesto di un manipolo di artigiani della scena che dentro e attorno alla loro sede, una casetta nel Campus di Chivasso, a pochi chilometri da Torino, senza clamore ma con lieta ostinazione costruiscono e indagano una via diversa dal proprio già noto, mi pare degno di rispetto e attenzione.

Fine della piccola parentesi.

 

ph Diego Diaz Morales

 

Il percorso è in divenire, si avanza per tentativi.

Per rispetto verso tale attitudine esplorativa, mi pare opportuna una consonanza tra queste righe e ciò che esse raccontano: riportare frammenti, senza voler giungere a premature sintesi o letture.

Detto altrimenti: con fiducia fenomenologica stare semplicemente vicini a ciò che accade.

Si inizia attorno a un tavolo. In mezzo quadernini bianchi e colori: pennarelli, matite.

Alcuni teatranti piemontesi, un fisioterapista specializzato nel lavoro con artisti, un’insegnante di yoga, una maestra di vocalità, uno scrittore e drammaturgo e poi io.

A cercare di condividere, e mescolare, pratiche e saperi su uno stesso oggetto bifronte: camminare, cantare.

A inizio febbraio 2022, per tre giorni, si parla molto e alcuni propongono agli altri le loro pratiche.

“Posare il proprio sguardo sullo sguardo degli altri”.

Fuori: forme. Dentro: immaginario, percezione.

“Di quali strumenti mi doto, per la consapevolezza?”.

“Il viaggio nella coscienza si fa con i sensi”.

“Essere nella crudità della vita”.

“Da cosa è formato un essere umano? Corpo, mente, respiro”.

Quanto tempo serve per entrare nel passo dell’altro?

“Camminare produce lo spazio”.

Una camminata normale è abbastanza silenziosa, economica, ritmica.

Camminate patologiche come possibile caratterizzazione, prima sonora e poi visiva, di alcuni personaggi: anatomia come scaturigine della creazione.

Percepire sotto ai piedi il proprio ritmo respiratorio.

“Allarga. Mantieni la forma. Lascia e osserva”.

Camminare produce lo spazio.

Quando il camminare si trasforma in danza? Quando il parlare muta in canto? Sostare in quel limine.

Camminare come rinnovamento della ferita.

Sentieri cicatrici della Terra.

Le parole ruga, solco, ferita e sentieri appartengono allo stesso gruppo semantico.

A fine maggio 2022, per due giorni ci si ritrova.

Funzione del canto iniziale: portare il tema della partenza, del viaggio.

Tutto ciò che entra nello spettacolo (canti, azioni, parole, oggetti, costumi, luci) deve avere una funzione concreta: no al decorativismo, no agli orpelli, no al tanto per.

Ogni elemento è connesso agli altri, ne motiva l’esistenza: spettacolo come ecosistema, come habitat.

Cercare di far incontrare modi diversi di costruire, schematizzare, nominare.

Cercare vie per condividere immagini e immaginari.

Verbalizzare la struttura fissata fino a quel momento (azioni fisiche e vocali) senza eseguirla: le parole creano il reale, non solo lo descrivono.

“Avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce, pozzi – e col loro canto avevano fatto esistere il mondo” – Bruce Chatwin, Le Vie dei Canti.

Poca o nessuna separazione tra parlato e cantato.

“Desiderio, più che conquista”.

“Camminare è una forma dell’ascolto”.

Immaginare i movimenti nello spazio, di attori e spettatori, come petali, accampamenti, pendoli, navi.

Come rendere attivi gli spettatori? Come far fare loro esperienze?

Estetica come contrario di anestetica, non di inestetica.

Rendere evidenti le tracce, ancorché temporanee, delle esperienze fatte dagli spettatori.

A line made by walking.

 

Richard Long, A line made by walking, 1967

 

Poema sinfonico per 100 metronomi di György Ligeti (1962): a tratti, per un po’, la confusione cessa, il suono si organizza.

Quale struttura, quali variazioni (di ritmo, energia, luoghi nello spazio, composizione dei gruppi di attori e spettatori) e quali connessioni per passare da una scena all’altra?

Ci possono essere al massimo cinquanta spettatori.

Spostarsi in silenzio: lo spettatore fa silenzio? Se sì: come lo si aiuta ad ascoltare quel silenzio? A far sì che sia cosa viva, occasione di esperienza – e non solo divieto di parlare?

Il testo viene costruito anche con suggestioni e frammenti raccolti in diversi laboratori (di cui dirò in un prossimo articoletto).

“Lungo il cammino respiri e stai”.

Quanto la competenza/maestria può condurre in territori inediti e quanto può essere una gabbia?

La possibilità di farsi stranieri alla propria lingua.

La drammaturgia prova a intrecciare evocazione e racconto.

Approccio elementare: vengono messi in risalto e lavorati alcuni elementi basici del fatto teatrale.

Eccoli:

  • Voce
  • Ritmo
  • Parole
  • Relazione
  • Attivazione del fruitore
  • Elementi del contesto culturale: poesia, storia della musica, letteratura

Inventare gli strumenti per la propria ricerca, costruirseli.

Ogni elemento dello spettacolo va considerato un mediatore di esperienze.

“Lavoriamo con leggerezza e precisione”.

“L’etimologia fantastica à la Borges è molto meglio di una lezione”.

Andantemente se non lo usi in uno spettacolo così, quando lo usi?”.

 

ph Diego Diaz Morales

 

Elementi costitutivi del teatro, qui.

  • Training (vocale e fisico): alcuni principi e/o frammenti entrano in alcune scene – modalità tipica del Terzo Teatro
  • In limine tra cantato e parlato intonato
  • Le intenzioni diventano in-tensioni: da fantasia a fisiologia, da semantico a somatico
  • Fissare struttura vocale entro cui possono esistere minime variazioni
  • Attacchi decisi, spazi di silenzio nelle proprie frasi in cui gli altri si possano inserire
  • No prosodie memorizzate, ma reagire a ciò che accade
  • No: isocronie con pulsazione, stesso registro, stessa velocità
  • Ripetizioni, ripetibilità
  • Concatenazione: attenzione con/a gli altri
  • Equilibrio mobile tra regolare e irregolare, atteso e inaspettato, intelligibile e inintelligibile

Un’affollata solitudine. Una sola moltitudine, come ha scritto Fernando Pessoa.

À suivre…